Archivio mensile:Maggio 2011

The fabric works

In un nodo strozzato di acciaio il ragno gigante di Louise Bourgeois introna l’ingresso, appoggiandosi su zampe puntute come gambe di un compasso.

Enorme, teso e ammaliante nello spazio essenziale di mattoni rossi e travi lignee a vista che Renzo Piano ha fatto “reviviscere” dal tempo e dal sale e dall’acqua della laguna, il Crouching Spider inchioda l’attenzione ed eccita quell’ambiguità simbolica che è l’emblema e la scaturigine stessa della sua potenza espressiva, perché il ragno tesse, cuce e ripara la sua tela in un mirabile disegno, frattale di luce; eppure spaventa e orripila, morde di follia sacra le danze, fila una trappola mortale di fragilità, invisibile e tenace. Infine, è rappresentazione convessa del Femminile, “speculum” e cavità che stana il perturbante.

“Perché sono qui?” – si interroga nel mito Hopi la Donna-Ragno– “Guardati attorno” –le risponde Soutuknang- “Qui c’è la Terra che abbiamo creato. Ha forma e sostanza, direzione e tempo, un inizio e una fine. Ma non c’è vita. Non c’è alcun movimento gioioso, alcun suono allegro. E che cos’è la vita senza suono e senza movimento? Ti è stato dato il potere di aiutarci a creare la vita. Ti sono stati dati conoscenza, saggezza e amore, per benedire tutti gli esseri che crei. Ecco perché sei qui”. “Ecco la tana della tarantola!” – urla invece di orrore Nietzsche –“Qui pende la sua ragnatela. […] Vendetta si annida nella [sua] anima”.

Che sia innocente vittima dell’invidia di Pallade Atena oppure accento colpevole della Superbia (per cui Dante la colloca nel Purgatorio) la figura mitica di Aracne è ammantata di una duplicità intrinseca che la grandezza coraggiosa e larga di Louise Bourgeois sembra raccogliere ed esplorare tutta, proiettando su ipnotiche opere in stoffa  appese alle pareti (The fabric works) delle tele di ragno che irretiscono l’occhio in pattern imperfetti, cuciti intorno ad un centro di sapienti cromature geometriche (perché il “il colore è più forte della parola”).

La paura incapsulata nelle tre sfere/ovulo di legno (in Bullet Hole) rinserra e salda in un intero simbolico l’abbraccio orbitale tra amore e morte; lo stesso che sgonfia di luce le vesti floscie di Peaux de Lapin, sgretolandole in sussurri di corpi.

Tessuti di blu estivo e di azzurri marini, di celesti salati, tramonti rosacei e di neri stellati trattengono The waiting hours in rammendi sereni, mentre la bocca di Alda Merini si posa sugli occhi di Louise Bourgeois:

“Amai teneramente dei dolcissimi amanti/ Senza che essi sapessero mai nulla./ E su questi intessei tele di ragno/ E fui preda della mia stessa materia”.

luglio 2010

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Louise Bourgeois e Emilio Vedova. The fabric works

Fondazione Emilio e Annabianca Vedova

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La biblioteca di Babele e altre finzioni

“Tattarrattat!”

Superbo e autorevole palindromo, speso nientemeno che da James Joyce nell’Ulysses invece del trito “toc toc” (che si riproduce in un raschiato e cacofono “cot cot”).

“Tattarrattat”, per riflettere in lettere l’ immagine dello specchio. Gioco nel gioco, freccia alfabetica a traiettoria biunivoca che converge in un unico riflesso.

Titolo dell’installazione multimediale che l’autore, il giovane fotografo polacco Nicolas Grospierre (vincitore del Leone d’Oro alla Biennale Architettura 2008 per il miglior Padiglione nazionale), impernia intorno ad un film da lui realizzato ed interamente girato negli spazi di Palazzo Donà. Il film guida i visitatori (e spettatori) in un insolita, perturbante visita. Grospierre, infatti, utilizza immagini prodotte con uno specchio convesso, confermando così la propria affascinata vocazione all’illusione ottica (o, per dirla con Rosalind Krauss, per “l’inconscio ottico”) che si riposa sulle braci ardenti di una cospicua domanda: che cos’è la verità dell’immagine?

Lo specchio convesso è la metà alchemica della sfera magica, il bulbo oculare reificato, l’astratto simbolico delle “liaisons dangereuses” tra le parole e le cose.

Radicato nella tradizione nordica, dove lo si trova appeso negli interni delle case per le sue virtù apotropaiche e scaccia demoni; reso celebre dal virtuosismo di Jan Van Eyck nel ritratto di una coppia di sposi, lo specchio convesso è, in effetti, l’“occhio della strega”, come viene anche chiamato, perché guarda e cattura, deformando, ingigantendo, trasformando. Per esorcizzare il fantasma del doppio e le sue ombre, Grospierre si autoritrae con lo specchio convesso, novello Parmigianino, mentre la macchina fotografica che esegue l’auto-scatto campeggia nell’inquadratura, ripercorrendo le geometrie incrociate della visione di Velazquez in Las Meninas.

“Si ha paura/ di me che ha paura / di me che ha paura / di me che ha paura./ Forse si può parlare di immagini riflesse” annotava e annegava R. D. Laing nella sua scrittura circolare.

“lo m’arrischio a insinuare questa soluzione: la Biblioteca è illimitata e periodica. […] La Biblioteca è totale […] [contiene tutto…] il catalogo fedele della Biblioteca, migliaia e migliaia di cataloghi falsi, la dimostrazione della falsità di questi cataloghi, la dimostrazione della falsità del catalogo autentico […]” – scriveva Borges in “La Biblioteca di Babele”, alla quale Grospierre rendeva omaggio con la sua installazione: “Bilioteka” del 2004. La scrittura di Borges funziona come le immagini mobili riflesse da specchi tra gli specchi, frantuma la solidità delle rappresentazioni, scardina la certezza dalla visione e le fa imboccare la via non dell’utopia ma dell’eterotopia -come scrisse Foucault.

Ma se “le utopie consolano […] le eterotopie inquietano”: “tuono pettinato”; “crampo di gesso”. “Aspidi, Amfisbene, Ameruduti, […]”.

Un palindromo forse, lineare figura retorica con regole intrinseche, protegge dal caos spaventoso fuoriuscito dall’infinito pensato possibile: “[…] I was beginning to yawn with nerves thinking he was trying to make a fool of me when I knew his tattarrattat at the door […]”.

novembre 2010

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Nicolas Grospierre. TATTARRATTAT

Fondazione Signum

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The crisis is (not) over

Al Macro di Roma la personale di Dan Perjovschi

Si muove libero, nello spazio, Dan Perjovschi, mentre disegna veloce, sollevandosi da terra con un carrello elevatore per raggiungere ogni pezzetto di superficie a sua disposizione. In una libertà di movimento aerea che è insieme fisica e concettuale. Perché è con la libertà di movimento che ha inizio anche la libertà di espressione, come gli hanno insegnato per contrasto i repressivi anni della censura, sotto il regime di Ceausescu.

Tutta la libertà ritrovata sembra ora zampillare da quella levità di linee disegnate, da quella loro irrefrenabile velocità, che scorre semplice e chiara e abita un segno potenzialmente ubiquo, perchè si lascia tracciare ovunque. Ovunque la mano dell’artista lo desideri e lo disegni, per portare un’onda di ribellione lieve e senza rabbia, per rimarcare un’idea critica sul mondo e marcare un territorio temporaneo e nuovo.

Un di-segno che non nasconde alcuna ossessione assertiva e che, tuttavia, può scalfire la superficie, inciderla di un’intelligenza sorgiva e con una grazia irriverente ed acuta, dove il segno si sprigiona in una danza libera e vivace, che si svolge su qualsiasi superficie incontri. Perché nell’universo di Perjovschi tutto è tracciabile, anche se tutto è già tracciato: un muro, una vetrata, una parete, un soffitto non sono ostacoli ma aperture sul mondo, da imboccare con soave ed adulta ironia.

La sfida senza arroganza che l’artista ingaggia con le barriere del già detto e del già deciso soffia rapida sul senso, lo spazza via, ricordando a tutti noi la sua impermanenza, la sua vita transitoria e fugace. Quel segno veloce, dipanato agile dalla mano e controllato dalla mente zeppa di idee, zeppa di opinioni sul mondo, si svolge senza presunzione, sigillato in quel dono della sintesi che solitamente contraddistingue le vignetta satiriche dei quotidiani e che è al contempo affabulatorio quanto un’intera striscia di fumetti, buffo quanto il linguaggio naife dei cartoon, incisivo e puntuto quanto la miglior tradizione giornalistica.

Politica, società, ambiente, attualità: c’è tutto il mondo infatti riflettuto e raccontato nei disegni di Perjovschi, che ha dichiarato: “I can understand the world only if I draw it. If I draw it, I will remember it”.

I disegni di Perjovschi si possono leggere in modo olistico, come un unico grande fumetto farcito di cose, idee, appunti. Oppure come singoli interstizi, dettagli, micro-vignette, dove parole e immagini sigillano un’idea, anche se solo per un attimo, perché l’occhio nel frattempo è già intento a seguire la vignetta successiva, a lasciarsi catturare dalla complessa geografia di segni che affollano la superficie, in un farsi segno che è quasi un annotarsi, un prendersi nota a voce alta. Un repertorio vivissimo di pensieri e immagini squadernato. Uno zibaldone di idee, disegnate con garbo, sparse ovunque, spalmate senza vergogna dappertutto, perché tutti le vedano, le pensino, le dimentichino, senza nessuna pretesa intrusiva di dominare e imporsi sul pubblico che è altrettanto libero di muoversi e (di)vagare oppure di osservare Perjovschi mentre scuce il suo disegno sulla pelle del mondo.

marzo 2011

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The crisis is (not) over. Drawings and diorama
Macro di ROMA
fino al 12 giugno

American Life

  

Dolce, spiazzante, sincero.

Un viaggio in due tempi, quello di Burt e Verena, vibrato della luce improvvisa della sorpresa e  della scoperta – l’inaspettata gravidanza di Verena-  e che poi si fa colorato nell’ imprevedibile esplorazione di nuovi mondi possibili, in cui si buttano a bruciapelo.

Due anti-eroi moderni,  Burt e Verena, protagonisti di un “Bildungsroman” a due, dal ritmo allungato e disteso, screziato dalla polifonia delle opinioni, intorno a loro, a tratti comiche e grottesche, sul mestiere più difficile del mondo: quello di genitori. La loro storia si (ri)costruisce infatti intorno a quella degli altri, raccontata in agili micro-ritratti, istantanee di un America stanca e confusa, quasi spaesata.

Quando Verena e Burt, il suo buffo e tenero compagno di vita, scoprono che presto avranno un figlio, la loro storia subisce un’accelerazione. Dalla triste roulotte, orizzonte del loro precario e indeciso amore, i due se ne escono ad annusare il mondo per capire dove andare a ricostruire una vita migliore e stanare, finalmente, l’energia di un futuro che prima non c’era, e che stentava ad arrivare. La notizia della nascita esplode calma e silenziosa dentro ai loro (mancati) progetti di vita, scrollandoli dal torpore mortale e inerte in cui si erano costretti a vicenda.

Inizia così l’avventura attraverso l’America, raccontata dagli sguardi aperti e naiv dei due innamorati, che osservano con paziente ironia le storie degli amici e dei parenti alla prese con il ruolo di genitori. Chi intrappolato dentro al proprio cliché, come i genitori di Burt, che inseguono il loro sogno di Libertà Assoluta dai legami e se ne vanno a vivere in Europa negandosi la gioia della imminente nascita di un nipote. Chi intento invece a demolire i propri sogni passati, come la coppia di ex-colleghi di Verena, che offre il volto più sfatto e amaro dell’America, quello del disincanto che impietosamente divora i propri figli. Chi, come la coppia di amici, a Montreal, che vivono in una casa meravigliosa, con idee progressiste, in mezzo a tanti allegri bambini adottivi, ma che nascondono in realtà un dolore intimo e privato.

Gli occhi di Burt e di Verena si posano con maturità sui drammi, sorvolano con leggerezza sulle follie (esilaranti) degli amici hippies, e trovano, alla fine, il proprio sguardo sulle cose e sul mondo, nella casa di famiglia di Verena, che si affaccia sul mare.

09 Aprile 2011
American life
regia di Sam Mendes
con John Krasinski, Maya Rudolph, Carmen Ejogo, Catherine O’Hara, Jeff Daniels.
durata 98 min. – USA, U.K. 2009
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