Il Maestro gentile

Foto di Gianni Berengo Gardin. "Catania", 2001

Foto di Gianni Berengo Gardin. “Catania”, 2001

“Le fotografie invecchiano e cambiano sapore come il vino”, dice Gianni Berengo Gardin. Perché il loro significato si costruisce nel tempo e dal tempo emerge anche la loro intrinseca bellezza: la vita che raccontano. Le fotografie si costruiscono, ormeggiando l’istante alla grande nave della memoria.
Questo grande maestro della fotografia italiana e internazionale ha saputo “osare il banale”. Con il rigore di una semplicità conquistata, con la consapevolezza della propria responsabilità e con fermo rispetto verso i soggetti che racconta. È una sfida della compostezza, in bianco e nero, al caos iconodulo e colorato della pubblicità, per proteggere il contenuto e il valore documentario e documentale dei suoi scatti. A tal punto da non aver mai voluto dare dei titoli alle proprie fotografie, ma solo didascalie. Per non forzarne il senso, anticiparlo, contraffarlo, e lasciare invece liberi di interpretare, vedere, capire. Nella convinzione che il compito di un fotografo “non è quello di dipingere ma di scrivere”. La fotografia italiana si inchina al suo garbo d’altri tempi, rimasto saldo in mezzo alla tempesta di immagini che ci ha sommerso d’un fiato. Nient’affatto distratto dai colori di un mondo ormai sottosopra, che chiede alla fotografia nuda informazione ma la tradisce con le finzioni di Photoshop oppure la baratta con velleità creative e non artistiche, Berengo Gardin rimane concentrato sull’obbiettivo della sua Leica con una passione (analogica) che sfiora la devozione.
Nato nel 1930 in Liguria, da padre veneziano e madre svizzera, ha vissuto tra Roma, Venezia, Lugano, Milano. Ma è a Venezia che deve l’incontro magico e casuale con Leo Longanesi, sedutosi ai tavolini dello stesso caffè. Nel 1954, grazie a lui, inizia a pubblicare per “Il Mondo” di Pannunzio. Nel 1963 il “World Press Photo Award”. Poi, le lunghe avventure professionali con il Touring Club Italiano e l’Istituto Geografico De Agostini; le collaborazioni con il mondo dell’industria (Olivetti, Fiat, IBM) e con l’architetto Renzo Piano. E i libri, dove il suo lavoro, mai ideologico, mai strumentale, fruga con impegno civile tra le mura del Paese e nei manicomi (“Morire di classe”, 1968); per le strade e le case d’Italia (“Dentro le case”, 1977; “L’Aquila prima e dopo”, 2012), in mezzo alla gente (“La disperata allegria. Vivere da Zingari a Firenze”, 1997; “Zingari a Palermo”, 1998) senza tuttavia rinnegare quella ariosa, acuta, romantica leggerezza imparata dalla Francia di Willy Ronis e Cartier Bresson e che così bene emerge nelle sue foto veneziane. Eppure, si schermisce con educata ma sbrigativa asciuttezza: “Non sono un’artista, sono solo un testimone”.
Alla ricerca del miracolo della naturalezza, Berengo Gardin fotografa le piazze anche “con la pioggia, la nebbia e il brutto tempo”. Fotografa le persone, anche quelle affette da malattie mentali. Fotografa un vecchio grammofono spensierato e il ballo sulla spiaggia di due ragazzi al Lido. Forse condivide con Cesare Zavattini “quella confusione, mista a dolcezza e perfino angoscia”; quel “prepotente desiderio di vedere, di analizzare”; quella “fame di realtà” che sono “l’omaggio concreto verso gli altri, verso tutto ciò che esiste”.

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