Archivio mensile:gennaio 2014

Quintetto

Foto di Marco Chenevier/TID

Foto di Marco Chenevier/TID

di Anna Trevisan

Decostruzione del risultato, anatomia della creazione. Lezione estemporanea sulla complessità della semplicità, sottolineatura dovuta e necessaria delle fasi da cui uno spettacolo nasce, della fatica da cui cresce, della quantità di persone che devono collaborare insieme per costruirlo.
Manifesto di uno spettacolo ai tempi della crisi, brillante denuncia dello stato delle arti e dello spettacolo oggi. Inno alla poesia e alla bellezza, questo spettacolo chiede coraggiosamente e sfacciatamente aiuto al pubblico, perché i performer protagonisti hanno dato forfait per colpa dei tagli al budget.
Lo si ri-costruisce insieme, dunque, questo pezzo per cinque danzattori ridotti ad uno solo, il mago acrobata ed affabulatore Marco Chenevier. Lo si ri-costruisce insieme all’ilarità complice del pubblico, alla sorpresa incredula e spettacolare che suscitano le parole del protagonista. “Non posso fare tutto io!” ripete l’artista, mentre gesticola sul palco e salta nel proscenio con rocambolesche acrobazie destreggiandosi in tanti moltiplicati alter-ego di se stesso: attore ed interprete, coreografo e regista, drammaturgo, sceneggiatore, paroliere. Invita il pubblico a collaborare, con quieta e preoccupata delizia, chiede volonterosi volontari che supportino lo spettacolo in prima persona, salendo sul palco a fare le veci dei danzatori assenti, a manovrare le luci e ad ad orchestrare la musica e la colonna sonora al posto di tecnici che non ci sono, a truccarlo, a vestirlo al posto del costumista e del truccatore.

Tutti spariti, nella disattenzione generale di un Paese che non si accorge di che cosa sta succedendo. Operatori, tecnici, artisti della Compagnia: tutti inghiottiti dai tagli al budget. Marco Chenevier interpreta quindi prima di tutto il sopravvissuto a questo inasprimento delle difficoltà oggettive in cui oggi chi fa arte e spettacolo in Italia si trova ad operare. Così, tra questa confusione allegra di ruoli, tra questa gioiosa baldanza interattiva che confonde levità e clownerie, mimo e parola, corpo dell’attore e del danzatore in oscillazione tra raffinato cabaret e danza spicca ed emerge anche un elemento troppo spesso dimenticato: la qualità del gesto e della presenza che contraddistingue un artista da noi uomini qualunque, sfatando il mito del “avrei potuto farlo io”!:
E non è un caso che l’intelligenza drammaturgica e la sensibilità attorale del performer scelga a tema del suo non-spettacolo la figura indelebile, elegante, capitale di Rita Levi Montalcini, icona della scienza e mente meravigliosa simbolo della ricerca e del futuro. “È tempo di morire?” chiede alleggerendo in interrogazione il finale di Blade Runner. Crediamo proprio di no!

Teatro Aurora, Marghera (Ve)-17 Gennaio 2014

“Quintetto”

coreografo Marco Chenevier

per 5 danzatori

produzione TIDA Teatro Instabile d’Aosta

musiche di scena Villa Lobor, Yann Tiersen

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14 gennaio 2014, CSC Nardini, Bassano del Grappa.

Sharing di fine residenza di Camilla Monga e Luca Scapellato, coreografia di Camilla Monga, Interactive sound design di Lska

di Anna Trevisan

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Foto di Camilla Monga/Lska

Un folletto viaggiatore arriva in jeans, maglione blusante a righe e scarpe da ginnastica. Sul pavimento due strisce bianche di scotch disegnano un trapezio aperto, adagiato verso il pubblico. Perché ci siano queste due linee bianche lo capiamo poco a poco. Dentro queste linee scopriamo che c’è musica, c’è rumore, c’è suono. Fuori invece il silenzio. Il corpo curioso della danzatrice Camilla Monga entra ed esce da queste direttrici, divertendosi a trapassare confini sonori e dimensionali.Danza con spavalda freschezza, nuotando in movenze leggere, snodate, fluide e sbarazzine, che a tratti la fanno assomigliare a un pinocchio giocoso, a uno scoiattolo nel bosco, a un camminatore androgino e solitario su qualche pianeta esterno al sistema solare.Due sono gli oggetti che usa in scena: uno “skate” a quattro ruote, e un “hula hoop” fatto di cavi di plastica gialla arrotolati. Il tocco e la manipolazione degli oggetti producono risultati sonori inaspettati, così come il movimento del suo corpo nello spazio “dentro” i confini, che scopriamo perlustrato da un sensore di movimento, appeso in alto per catturare ogni suo gesto, tradurlo in impulso elettronico e rielaborarlo in suono.

Questo dialogo sonoro tra corpo umano, spazio fisico, elettronica e suono scorre lieve, all’insegna della morbidezza. Luca Scapellato musica e dirige seduto alla sua postazione. Dallo schermo del computer escono rielaborazioni delle immagini della perfomer, e delle sue ombre, trasformate da un programma magico, degno di Tesla redivivo, che emancipa la tecnologia dallo stereotipo della pesantezza robotica, catturando la danza, pilotando il suono e rimbalzandolo sul corpo della danzatrice come fosse acqua invisibile, goccia e marea.

La coreografia dirige la musica e allo stesso tempo la costruisce. L’incontro delle gambe, o delle braccia, o delle mani con un preciso punto nello spazio suscitano risposte precise: si accendono impulsi sonori, si moltiplicano e da elettrico-motori diventano elettronici; cadono su superfici preparate di loop, su strisce di suono campionato.

La macchina rileva il movimento, lo ascolta, e la danzatrice, a sua volta, danzando perfora dimensioni acustiche diversissime, attraversando con tutto il corpo ogni variazione possibile: slabbra un suono in altezza, in intensità, in volume, in colore. Questa interazione tra “forze motrici” e “forze acustiche” si traduce in danza.

Elettronica e fisicità, macchina e corpo umano si esplorano a vicenda, in contatti delicati e nuovi, tessuti sulle assi invisibili di ascisse che compongono il volume del suono e ordinate che determinano il tipo di suono.

“Bolle sonore”, le definiscono gli autori, dove la precisione esatta dell’ingegneria del suono sfida l’imperfezione divina del corpo umano, invitandolo a ripetere improvvisazioni impossibili, originando limiti ed errori umani che rendono questo duetto ad alta precisione più tenero e meno virtuale.

http://www.operaestate.it/evento/camilla-monga-e/

http://www.lska.org/it/

http://www.aiep.org/

http://www.ickamsterdam.com/

Iperspazio

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Il ritorno a casa | Peter Stein

Il ritorno-a-casa_Una-foto-dellospettacolo, Foto Pino Le Pera

Foto di Pino Le Pera

Maleducato, violento, scioccante. Il testo di Harold Pinter già nel ’65 deve aver creato non pochi turbamenti nel giovane e meno giovane pubblico astante, e altrettanto sconcerto di critica.

Tre ore di spettacolo con attori puri, bravi, bravissimi e la regia attenta, pulita, letterale di Peter Stein, che pondera la scena con un allestimento fedele alle indicazioni di Pinter, senza censurare il testo originale, ma anzi potenziandolo con l’inserimento qua e là di qualche parola in inglese a ricordarci la paternità linguistica di questo lungo, intenso, sorprendente viaggio onirico e psicoanalitico nel magma nero del rimosso. Un Freud esploso, polverizzato in tabù realizzati, in violenze che da verbali si fanno reali, in complessi e asimmetrie relazionali che scalzano ogni buon senso, in relazioni di genere ammalate, dove il maschile si è perso, decomposto in terrificanti ossessioni, e il femminile prima assente ritorna spaventoso.

Che dire di questo affresco familiare sbilenco, decentrato, allucinato, dove nessuno dei personaggi offre un appiglio o uno spiraglio di luce e moralità allo spettatore, ma anzi lo incalza e lo invita ad abbandonare la decenza verbale, ad uscire forsennatamente di senno, in un climax ascendente di turpiloqui, situazioni ambigue al limite dell’incesto?

Un branco di fratelli-lupi, acculati intorno al padre, vecchio capo branco sempre più solo, sempre più rognoso, e l’irrompere di una cognata-Lupa, che da preda si fa regina. Gli attori incarnano i personaggi con una tale puntualità di intenzioni, voce, gesti da lasciarci vedere per davvero la scena come se stesse accadendo in una famiglia reale, annegando il confine tra verità e finzione che probabilmente è la radice dello sconcerto che questo spettacolo procura.

Che sia uno spettacolo appuntito e sferzante lo capiamo fin dalla prima scena, quando assistiamo al dialogo degenerato tra Max, il padre ottantenne in cardigan, bastone e berretto magistralmente interpretato da Paolo Preziosi, e il figlio Lenny, che sfoglia strafottente il giornale, disteso sul divano di casa, rispondendo a sprazzi alle domande del “vecchio”, e insultandolo con parolacce così volgari che persino la ragazzina col piercing al naso seduta accanto a me in platea sobbalza esterrefatta.

Potrebbe essere una scena di oggi, ispirata alla generazione de “gli sdraiati”, quella del primo atto. Invece l’allestimento di questo incredibile, folle pezzo teatrale, ci ricorda che siamo negli anni ‘60, in una vecchia casa in un sobborgo a Nord di Londra. Il fumo della cicca avanzata aspirato dal vecchio Max non nasconde il turpiloquio serrato che si stringe intorno a padre figlio e allo zio autista, sopraggiunto nel frattempo.

“Sei un cuoco per cani” sentenzia Lenny a commento della cucina del padre, che poco prima ha apostrofato letteralmente come “coglione”, indeciso tra pose da damerino e bestialità da farabutto.

“Chi credete che io sia, vostra madre?” – ribatte Max -“Arrivate affamati come lupi a ogni ora del giorno e della notte. Andate fuori a trovarvi una madre!” – mettendo in chiaro fin da subito che in quella casa, in quella Famiglia impera un problema enorme e mostruoso con il femminile, e che questa perversione familiare alimenta e nutre tutte le relazioni.

In questo quadro tutto al maschile, alterato e compromesso di rabbia vomitata addosso con parole maleodoranti, si inseriscono gli sposi Teddy e Ruth, rispettivamente figlio e nuora di Max. L’arrivo della coppia nella casa avviene ad un’ora improbabile, nel cuore della notte, quando tutti dormono. “Vuoi restare?” chiede Ruth nervosa al marito. “Restare? Siamo venuti per restare” gli replica lui. “Il vecchio… credo ti piacerà … Lui è … vecchio. Hai i suoi anni” annuncia Teddy, che ritorna nella sua casa natia dopo anni di assenza, dopo un matrimonio “in contumacia” consumato con Ruth, con la quale condivide una nuova vita negli Stati Uniti. Teddy è professore di filosofia, una materia rarefatta e astratta che atterra in quella casa come un qualche cosa di estraneo, inutile, quasi alieno. E infatti alieno Teddy resterà per tutto il tempo della permanenza lì, lasciando fuoriuscire il siero velenoso dalle bocche degli altri, senza scomporsi né intervenire se non quando costretto perché interrogato. Tant’è che Teddy lascia fin da subito Ruth da sola ad affrontare la Casa, e scappa di sopra in camera a dormire.

Il fratello Lenny ricompare insonne nel salotto, in una isterica vestaglia zebrata, con cipiglio sguaiato e  indecente verso la basita eppure ammiccante Ruth, soverchiata (ma solo in apparenza) dalle sue avance verbali sempre più esplicite. Dall’orologio, oggetto carico di simbologie sessuali per antonomasia, la conversazione si fa strada in zone sempre più scivolose e rischiose. “Non è buffo? Io sono in pigiama e lei è tutta vestita!” commenta Lenny guardando Ruth avvolta nel suo impenetrabile cappotto. Con la sua trivialità sollecita, borderline, aggressiva, le allusioni sessuali sempre meno nascoste, con la sua scurrilità minacciosa e cupa il personaggio di Lenny piroetta in scena, esacerbando i tratti di una maschilità marcia e sudata di impudenza al limite della molestia sessuale.

“Sono sensibile all’atmosfera … ma tendo a desensibilizzarmi quando la gente pretende troppo da me. Non so se mi spiego …” dice Lenny, servendo un’aggressione a cascata di parole inzuppate di sudicerie così violente da suonare scurrili ma in modo contemporaneo.

Gli oggetti sono i coprotagonisti di questa pièce che, più che del ritorno a casa del figliol prodigo, smarcatosi dalla famiglia reietta per votarsi agli studi, parla del ritorno del rimosso, dei vecchi fantasmi seppelliti nell’alcova della memoria e liberati dalla presenza della moglie Ruth, sovrapposta in modo sempre più incontrollato e conturbante alla figura della madre morta.

Ecco un bicchiere posato sul tavolino che separa la conversazione tra Ruth e Lenny, e un posacenere, dove si negoziano appetiti  sessuali e disponibilità.

“Se tu prendi il bicchiere … io prendo te” dice Ruth, con un’anticipazione narrativa di quanto accadrà nel secondo atto.

Il padre Max svegliato dalle voci di Lenny e Ruth scende le scale e compare in un pigiama a quadri, per sentirsi rivolgere da Lenny la domanda cruciale: “Quella notte sai.. quella notte con la mamma come è andata? Qual è il “background”…del mio concepimento…”. L’allusione al tradimento della madre, al fatto che lui è un figlio illegittimo cripta il malumore e la maleducazione ostinata che regola tra i due la relazione.

Joe, il figlio minore di Max, assume la violenza su di sé e la trasforma in aggressività fisica, inventandosi boxer dopo i turni di lavoro.

Max ostenta osceno la voglia sanguinaria di fare una mattanza di tutta la sua figliolanza bastarda, e non a caso rievoca a più riprese il suo passato da macellaio. “Io rispettavo mio padre, non solo come padre, ma anche come macellaio! […] Ho imparato a squartare carcasse ai suoi piedi. Ho onorato il suo nome nel sangue. Ho messo al mondo tre uomini e tutti col mio manico!”.

Il salotto di casa è in effetti una macelleria di sentimenti, dove la carne si frolla in ricordi infuocati e in non-detti terribili, dove il sangue scorre nelle parole, imbrattando tutto, dove i dialoghi sono accoltellamenti e il rancore fuoriesce ad ogni respiro.

La notte, in pigiama, ci si affronta meglio, e quando il sonno e la veglia ormai si confondono svaporando in un’ora imprecisata del mattino, appare nella stanza Ruth, in una virginale vestaglia bianca, che sa di sposa, che sa di purezza, insieme a Teddy, il grande pensatore silenzioso, che tutto osserva, tutto vede e tutto sente ma non agisce.

“Hallo papà” saluta Teddy, l’uomo senza qualità musiliano che Stein ha posato sulla scena.

“Chi ti ha dato il permesso di portare delle luride sgualdrine in casa?” lo apostrofa il padre riferendosi a Ruth. “Dai papà non fare lo scemo” scherza Teddy. “Non è mai entrata una puttana sotto questo tetto da quando è morta tua madre” insiste Max, scioccando tutti, pubblico compreso.

Ma la risata è ammessa con parsimonia. Nessuna virata comica infatti nel dialogo. Il climax di follia e violenza trasforma le presentazioni in colluttazione fisica che travolge tutti e cala il sipario sul primo atto.

La Famiglia di Pinter è una famiglia nient’affatto sacra ma semmai dissacrata, dissanguata, ammalata, che purtroppo a noi italiani ricorda sinistramente un certo tribalismo endogamico e deviato di certa parte del (mal) costume nazionale, pubblico e privato.

Gli oggetti nominati nei dialoghi aprono varchi di intesa e contrattazione.

Dopo il bicchiere e il posacenere del primo atto, ecco comparire un tavolo (“filosoficamente inteso”) e un panino al formaggio. E proprio il tavolo in oggetto sarà occasione per Teddy di fornire al fratello e al pubblico la chiave di lettura di questo circo umano allo sbando.

Addentando un panino al formaggio, Teddy sembra voler mangiare, divorare, annientare la violenza allucinatoria che si è appena consumata in quella casa. La moglie/madre Ruth è femminile alterato, divoratore e satanico, nutrimento annientante e il distacco di Teddy prevede la visione di un mondo come mondo di oggetti, dove anche la moglie/madre non è che un tavolo che cammina e muove/apre le gambe.

“È solo questione di […] essere capaci di vedere! Io so vedere, è per quello che scrivo saggi critici. […] Voi siete soltanto degli oggetti. Vi muovete qua e là. Io vi osservo. Vedo ciò che fate. Fate le stesse cose che faccio io. Ma voi facendole vi perdete. Io invece non potrò mai… perdermi” -dice Teddy, poco dopo aver assistito all’ammiccamento della moglie-madre (ora vestita di nero) con il fratello Lenny, che deraglia in un ballo lascivo, e poi in esplicito amplesso, per rovinare in un deliberato atto sessuale a tre.

La conclusione della storia non è naturalmente questa. È molto più sorprendente. Oltre ogni limite.

Anna Trevisan

 

Teatro Toniolo, Mestre- Gennaio 2014

Il ritorno a casa  di Harold Pinter

regia di Peter Stein; traduzione Alessandra Serra; con Paolo Graziosi, Alessandro Averone, Elia Schilton, Rosario Lisma, Andrea Nicolini, Arianna Scommegna; scenografia di Ferdinand Woegerbauer; costumi di Anna Maria Heinrich; luci di Roberto Innocenti; assistente alla regia Carlo Bellamio

 

http://www.metastasio.net/it/produzioni-tournee/spettacolo-produzione.asp?evnId=282

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