Un grappolo di percussioni troneggia in penombra. Sono taiko: tamburi enormi, con casse di risonanza panciute come barili, di legno rosso, marrone, bordeaux. Sono corpi massicci, presenze massive. Il musicista e perfomer Mugen Yahiro li percuote, assestando colpi ritmati e profondi, che producono vibrazioni così possenti da scuotere le ossa e il cuore. Lei, Masako Matsushita, si avvita sul pavimento con una gamba sola, a testa in giù, ad intervalli perfetti, scanditi dallo schiocco dei tamburi. Come un’ascia di guerra, conficcata nell’aria. Il suono del tamburo esplode, con una forza vitale e terrificante, che polverizza l’attenzione in modo sorgivo, radicale. Lei resta ferma, seduta di schiena, in un silenzio del corpo elegante, ventre agitato e immobile del movimento suscitato dal suono, ora chiaro ora scuro e buio, in un abbraccio circolare di pieno sonoro e vuoto gestuale. Poi, lei improvvisa si rialza, e disegna gesti puliti, stilizzati, come inchiostro di china su carta. Alla fine, nel silenzio, lei e lui, di schiena, stanno in ginocchio.
“L’inizio è in verità la fine” – spiega frettolosamente un assistente, riferendosi al montaggio dello spettacolo, mentre si procede al cambio di scena e allo spostamento dei tamburi inerti. “Questo è l’insegnamento dei principi. Satori può vedere la realtà grazie alla sua profonda saggezza” – recita stentorea una voce off, metallica e profetica, e un suono di flauti si spande intorno. E mentre attendiamo il rientro dei performers, ci diciamo che, in effetti, la fine è l’inizio, e viceversa.
Furtivi e rapidi ritornano: lei sorprendente drago bianco di riccioli di stoffa, con una lunga coda e a gambe nude. Lui con indosso pantaloni bianchi e una vistosa maschera rossa dal lungo naso. Lei impugna un mazzo verde di bambù. Lui sottili bacchette che frusta musicale nell’aria. Poi, la raggiunge e impugna il fusto di bambù orizzontalmente, come fosse un peso da sollevare, con una camminata ieratica, nel silenzio.
Lei si trasforma in creatura marina, salamandra, alligatore. Insieme scuotono impercettibilmente lo scettro di bambù. Poi lo premono sul pavimento, con movenze e cadenze che evocano quelle di un rito sciamanico. I fusti di bambù sono alberi, scettri, matite con cui disegnare nell’aria segni precisi, linee misteriose, segmenti di una scrittura sconosciuta e segreta. Loro incarnano concrezioni antiche di spiriti, liberati dal tempo; creature ultraterrene; animali, piante; creature asessuate circondate da emissioni ritmate di suoni, in lotta tra loro a suon di incantesimi.
In camminate di profilo, sincrone e perfette, che fanno pensare all’iconografia dell’Antico Egitto, in gesti lenti, cauti e guardinghi resuscitano memorie archetipiche e primordiali dell’Umanità, e raccontano con delicatezza e preciso controllo estetico-formale non il semplice folklore e la superficie ma l’anima mitica di un Giappone a noi ancora sconosciuto.
Anna Trevisan
08 Febbraio 2017, CSC - Garage Nardini, Bassano del Grappa (Vicenza) TaikokiaT Shindo Di e con Masako Matsushita e Mugen Yahiro Sound design di Federico Moschetti