Archivio mensile:luglio 2019

Antes di CIE Alias

15 luglio 2019 | Prima di che cosa? Prima dell’animalità, prima dell’aggressività, prima della sessualità. Prima della socialità e della riproduzione. Prima c’era un tempo in cui gli uomini erano come alberi in una foresta.

Equidistanti uno dall’altro, eppure connessi da forze invisibili e naturali, collegati da radici sotterranee e nascoste, intrecciati con rami e foglie dall’aria piena di pollini e di semi trasportati dal vento.

Nudi come gli alberi, vestiti di luce, senza abiti, senza orpelli, senza classificazioni e gerarchie. Tutti uguali eppure singolari e unici, accomunati dalla stessa terra abitata, dallo stesso cielo.

È una sfida frontale all’immaginazione, un invito a lasciarsi andare, a lavarsi da ogni ricordo, da ogni convinzione e ad inoltrarsi nel bosco segreto della nostra identità collettiva, posseduta e poi perduta.

Una luce a pioggia illumina i corpi dei dodici danzatori distesi a terra, completamente nudi. Scossi da movimenti impercettibili, i corpi si animano. Impulsi viscerali, muscolari agitano l’apparente fissità dei corpi. All’unisono i costati si mostrano emergendo da schiene inarcate. Il rumore di un temporale e di suoni naturali si mescola alla visione di un respiro sincrono, animato da polmoni che si aprono e si gonfiano sempre più vistosamente, creando un ritmo che scorre attraverso il costato fino all’addome.

pNon sono corpi ma sezioni di corpi, che annullano l’identità dell’umano, trasformandola in qualcosa d’altro: busti e schiene che diventano tronchi e cortecce, con un rovesciamento meraviglioso delle fotografie di Edward Weston, dove il mondo vegetale diventa sensualmente carnale e umano, come nella celebre foto del Peperone.

Un tremolio sonoro, un sussulto, un terremoto di pelle e muscoli, di involucri umani svuotati e leggeri collassa sul pavimento del palco, come se la gravità giocasse a far rimbalzare i danzatori, distesi su un fianco, spingendoli verso il basso, sotto il peso di forze invisibili. Forse pioggia, o tempesta, sparsa sottile sopra di loro.

In posizione quadrupedica, come scimmie glabre, la testa rivolta verso il basso, si muovono nello spazio, alzandosi in posizione eretta e svelando la loro integrale nudità, che non è inerme, non è piena di vergogna, non è sexy, non è ammiccante. Ma è limpida come rugiada, naturale come l’acqua, trasparente come l’ossigeno che respiriamo e ci tiene vivi.

Quello che vediamo sono solo corpi, ripuliti dalle impurità della mente, del pensiero, della logica, della civiltà; spogliati di ogni ambiguità e di ogni malizia. Sono corpi in piedi, che oscillano come fusti di abete nel bosco, mossi dal vento. Un esercito silenzioso che si muove stando fermo, come un pendolo ancorato all’ingranaggio, come un albero attaccato alle radici.

Poi, un altro quadro trasforma i corpi sulla scena. Una deformazione innaturale dello sterno, che sarebbe forse piaciuta a Francis Bacon pur non avendo nulla di carnale né di violento, prepara una nuova figura, una nuova forma naturale. Come chiodi di legno puntati per terra, alzano un braccio e lo tendono verso l’alto; scendono e si inchinano verso il basso, mostrando le loro schiene lucenti, equidistanti.

All’improvviso, si sparpagliano in arabesque che li congela come tavole di legno distese su una gamba; si appuntiscono in mani e braccia come guglie di una cattedrale invisibile; si inchinano nuovamente verso il basso, in un elegante e rigoroso equilibrio che gonfia in un abbraccio gambe e braccia, per poi nuovamente, pendere eretti ed equidistanti, e ritornare foresta. Girati di schiena, con la testa incassata nel petto e le gambe divaricate come un compasso si trasformano in creature acefale che si stendono a terra, si allungano su un fianco come linee orizzontali, si assottigliano meravigliosamente allineandosi con il pavimento, mentre una danzatrice si alza e spicca un salto verso l’alto, disegnando una linea verticale perfetta e senza ego.

Un nuovo quadro riconfigura la scena. Tutti i corpi si siedono a terra, di profilo, con una posa da Pensatore di Rodin moltiplicata. Poi ci mostrano la loro nudità in modo frontale. Ma ormai l’occhio non percepisce più corpi di uomini e donne ma creature di un mondo vegetale. Così vediamo seni come occhi, il costato come volti, il sesso come bocca, in un avventura dello sguardo levigata e leggera.

Ma c’è un escamotage che cambia tutto: i corpi diventano un organismo pluricellulare, si aggregano, si trasformano in una montagna, in un conglomerato lavico che erutta se stesso. La sorpresa del contatto tra i corpi in scena fa pensare ad un vulcano, al calore del fuoco, allo strato animale che, finalmente, reclama se stesso.

Anna Trevisan

Operaestate Festival
15 Luglio 201, Teatro al Castello, Bassano
Antes / CIE Alias
Coreografia: Guilherme Botelho
Assistente e Interprete: Claire-Marie Ricarte
Light design: Jean-Philippe Roy
Interpreti: Amaury Réot, Carl Crochet, Erica Bravini, Erik Lobelius, Fabio Bergamaschi, Linn Ragnarsson, Louis Bourel, Sophia Preidel, Veronica Garcia, Victoria Hoyland, Arnaud Bacharach
Luci originali: Jean-Philippe Roy
Musica originale: Fernando Corono – « Murcof »
Tecnico: Davide Cornil
Produzione: Cie Alias
Co-produzione: Théâtre Forum Meyrin, Théâtre du Crochetan
Supported by: Città di Meyrin, Città di Genova, Cantone di Geneva, Pro Helvetia – Swiss Foundation for the Promotion of Culture

Your Girl | Alessandro Sciarroni

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21 giugno 2019, Biennale di Venezia, Teatro alle Tese | Luci di sala accese. Il pubblico biennalino prende posto in compagnia della spensierata musica di Electric Girl. Si respira una strana euforia nell’attesa dell’inizio. Your girl è infatti la prima creazione (2007) di Alessandro Sciarroni- Leone d’Oro alla Danza 2019.

In scena due performers meravigliosi: Chiara Bersani –già Premio Ubu 2019 come miglior attrice e performer under 35 – e Matteo Ramponi, i quali hanno stretto con Sciarroni una lunga e fortunata liaison artistica ed umana, tuttora vivissima, tant’è vero che Bersani compare tra le consulenti della drammaturgia di Augusto (2018), spettacolo nel quale è in scena anche Matteo Ramponi.

Chiara Bersani e Remo Ramponi sono già sul palco, in punti diametralmente opposti. Lei ha gli occhi chiusi, serena e immobile sopra la sua sedie a rotelle, in una rapita ricerca di concentrazione. Lui è seduto a torso nudo sotto una pioggia di stelle filanti di tessuto, che poi scopriremo essere calzini di spugna. Indossa pantaloncini corti e prosaici, stucchevoli calzettoni, di quelli adorati dagli adolescenti in scarpe da ginnastica.

Lei è piccina e disarmante, avvolta in un silenzioso abito bianco con dei grandi fiori sul petto. Lui campeggia enorme e scultoreo, lontano e inarrivabile. Lei sembra aspettarlo, in tono dimesso ma speranzoso.

Lentamente, Chiara scende dalla sua sedia a rotelle e si avvicina al bidone dell’aspirapolvere al centro del palco. Con un piede dà un calcio alla sedia a rotelle e si appoggia al bidone. Sembra sorriderci, di un sorriso svagato, distaccato di chi è qui, ma pensa ad altro. Poi, con una mano, si palpa i grossi fiori bianchi che le decorano il corpetto e li stacca, uno ad uno, disfandoli in lunghe bende bianche, che fanno pensare a garze e ferite da medicare, a fazzoletti di carta per soffiarsi il naso e asciugarsi le lacrime, a carta igienica da buttare. All’improvviso, con un dito, Chiara aziona l’aspirapolvere, premendo un pulsante. “He loves me” –dice, staccando un altro fiore bianco dal suo vestito. Di nuovo aziona l’aspirapolvere, che le ventila i capelli come fosse in posa per qualche foto servizio di moda. Lui tace passivo e distratto, irremovibilmente seduto.

“He loves me not” – dice lei con un filo di voce, dolce e sottile, mentre il suo corpo di donna così diverso illumina la sala, sconcertando gli occhi, sempre più abituati a vedere una fisicità femminile monocorde, standardizzata e senza sorprese, che imita le curve di Barbie.

Lei infila con le dita dentro al buco dell’aspirapolvere tutti i fiori che si stacca dal petto, facendoli ingoiare con rumore meccanico e ripetuto. “He loves me not” – dice, continuando gentile l’altalena amorosa del “M’ama, non mama”. Mentre un altro fiore disfato viene ingoiato dal phon/aspirapolvere/bidone, lui si toglie un calzino e se lo rammenda con ago e filo. Lui cuce, per se stesso. Lei disfa, per lui.

Lui srotola un rocchetto di filo e rammenda un altro calzino. Lei si toglie le vesti, scoprendo i seni. La sua nudità emoziona come un fiore nella neve. Lui si rimette i calzini, si alza e si dirige verso la sedia a rotelle, che sposta e allontana. Poi, le si avvicina. Lei lo guarda avvicinarsi, con un’intensità di sguardo che solo la presenza in carne ed ossa può restituire. Negli occhi di Chiara si concentra un universo intero, una narrazione, un viaggio emozionale di andata e ritorno verso l’amore, il suo fuoco speranzoso, il suo disincanto, la sua passione, la sua tenerezza.

Si guardano. Lui si spoglia, scoprendo un corpo perfetto e tornito. Si copre le pudenda con i pantaloncini. Poi glieli offre. Lei li infila nel buco dell’aspirapolvere. “I love him” (“Io amo lui”) – dice lui, chiudendo ogni speranza di reciprocità amorosa. Lui si sfila i calzini e glieli porge. Lei li prende e di nuovo, con precisa, sorridente sicurezza, li infila nell’aspirapolvere.

Che cosa pulisce quell’aspirapolvere, da che cosa pulisce, non lo sapremo mai. Possiamo solo immaginare che Madame Bovary/ Chiara Bersani si inchini al destino e con grazia lo incorni, cambiando il finale di una storia già scritta, e preparandoci a vedere l’impensato.

Intanto, la musica pop di Tiziano Ferro intinge di miele la visione di quei due corpi nudi, così vicini, così lontani, facendoli incontrare di fronte a tutti noi. Loro, in piedi davanti a noi, si danno la mano, come bambini felici, come angeli caduti qui su questa terra, e solo di passaggio.

Anna Trevisan

Biennale Danza
21 giugno, Teatro alle Tese, Arsenale, Venezia
Your Girl (2007, 20’)
Invenzione: Alessandro Sciarroni
Performers: Chiara Bersani, Matteo Ramponi
Elementi visivi: Elisa Orlandini
Produzione corpoceleste_C.C.00#
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