La Biennale Cinema 2020| Diario del Mostro Marino.

“The Duke” by Roger Michell.

Lido di Venezia | Diario di giovedì 3 settembre 2020

Il film è fuori. Aggirarsi per gli spazi della Mostra significa ritrovarsi in un film, anzi, in una serie di fantascienza post apocalittica, in bilico fra Il racconto dell’ancella e 28 giorni dopo. Distanziati, a volto coperto i cinefili si mettono in fila disciplinatamente, non discutono, non danno consigli, non capitano più per caso ad assistere a proiezioni di opere che mai avrebbero immaginato di vedere… Il red carpet è dietro a dei pannelli che riservano la vista degli interpreti a fotografi e telecamere.

In questa waste land del cinema mondiale il Mostro si aggira sconsolato e vede quel che ha prenotato da casa ieri, per cominciare il film indiano Milestone. Un’opera dalla scrittura ben congegnata, l’elaborazione di un lutto che si intreccia con gli acciacchi dell’età che avanza e la nostalgia per la campagna di chi è andato controvoglia a vivere in città, la durezza delle lotte sindacali che mette in pericolo il posto di lavoro dell’autista esperto ed altre sottotrame che potrebbero avvincere lo spettatore. È anche interessante capire come l’India sia all’origine un paese multietnico e multilingue, dove vivono e lavorano assieme sikh e indù, kashimiri e immigrati dal Sikkim, ognuno con le proprie lingue, i propri culti e regole sociali. Purtroppo questo impianto narrativo di ampio respiro è sviluppato con una desolante piattezza di mezzi espressivi, un ritmo lento che non si accorda con la durezza delle situazioni né ne sottolinea aspetti rilevanti. Fra Loach e Antonioni, la pellicola appare incapace di trovare una sua cifra espressiva originale. Insomma, un tipico film da Orizzonti.

Lido di Venezia | Diario di venerdì 4 e sabato 5 settembre 2020
Vertiginose oscillazioni nella qualità delle pellicole viste in questi due giorni.
La Corea conferma la qualità della scuola di cinema che ha prodotto Parasite. In Night in Paradise di Hoon-jung Park, presentato fuori concorso, ritmo, plot, inquadrature e dialoghi disegnano un tipico gangster movie che procede senza sbavature, essenziale e senza manierismi, neanche quelli di alta fattura di Scorsese, Kitano o Tarantino. La passione per il sangue rimane però elemento caratteristico dei coreani. Qui giunge a vertici invero un po’ morbosi, occupando tutta la parte finale del film. Peccato.
Nella stessa sala, a seguire, due film presentati nell’ambito della Settimana della Critica. Uno è Les aigles de Cartage, un cortometraggio documentario sulla prima vittoria della Tunisia in una finale della Coppa d’Africa e sul ricordo dell’evento che ancora commuove i tunisini. Un esercizio di cinematografia che suscita scarso interesse nel Mostro.
Sempre nella stessa sala, a seguire, The book of vision dell’italo-svizzero Carlo Hintermann. Se c’è una forma espressiva rischiosa da adoperare nel cinema, è l’allegoria. Cinema significa offrire allo sguardo ciò che è celato fra le pieghe del reale, anche del reale posticcio, onirico o fiabesco della messa in scena filmica. L’allegoria è una forma semplificata di espressione simbolica, che si fonda su un sistema rigido di corrispondenze e che non dà spazio al lavoro ermeneutico dello spettatore. Uscito dalla sala egli non chiederà al suo accompagnatore “Secondo te cosa avrà voluto dire…”, semplicemente accetterà o rifiuterà “il messaggio”. Il rischio del didascalismo è elevato e solo pochi autori riescono, non sempre, ad evitarlo. Uno di questi è Terrence Malick, maestro dell’allegoria, mentore di Hinterman e produttore esecutivo di questo film. Il risultato è disastroso. Lamento sul ruolo della tecnica nello snaturamento del rapporto medico-paziente, elegia della interpretazione simbolica dei sogni per predire l’esito delle malattie, ghost story che ripete oggi il destino di pazienti e di un medico del XVII secolo… Una produzione lussuosa e inutilmente raffinata, fotografia che si rifà ai dipinti di Vermeer, danzatori nudi e ricoperti di vernice nera che portano nell’aldilà le anime delle vittime della malvagità umana e del potere. Molto meglio uno qualsiasi dei film di Harry Potter, che almeno si muovono in un universo narrativo coerente, in grado di suscitare emozioni e risonanze più autentiche.

Le pellicole di sabato 5 settembre hanno riservato una deliziosa sorpresa. The Duke ripropone la storia del furto del ritratto del Duca di Wellington di Goya dalla National Gallery di Londra, avvenuta nel 1961 ad opera di un padre e un figlio della working class. L’azione clamorosa è compiuta come protesta contro l’indifferenza della classe politica verso le condizioni di miseria spirituale in cui versano pensionati e proletari. Segue processo nella corte dell’Old Bailey, “il tempio del diritto britannico”. Il film è costruito come una perfetta commedia, con ritmi esatti che ne allietano la visione, una meravigliosa scrittura dei dialoghi densa di ironia e in grado di risvegliare empatia. Splendida è anche la ricostruzione visiva della realtà sociale dell’Inghilterra negli che precedono la swinging London, vista attraverso gli occhi di un uomo di genio, autodidatta, che non ha studiato ma che vorrebbe i suoi drammi messi in scena dalla BBC. Una mentalità insulare di un uomo che non vuole piegarsi all’indifferenza del potere, che sfida in ogni atto, anche minimo, in cui si articola la sua microfisica. Jim Broadbent e Helen Mirren usano al meglio le risorse dell’altissima scuola attoriale britannica. Splendida ed esilarante, poi, la citazione finale del primo film di James Bond, in cui il ritratto del Duca di Wellington ricompare nella fortezza del Dottor No.
Nella stessa sala, a seguire, Padrenostro di Claudio Noce. Il peggio della fiction televisiva italiana. Non è cinema. La camera segue i personaggi a pochi palmi dal loro naso, mostrandoci emozioni espresse nei modi della peggiore scuola attoriale italiana, stereotipati e fasulli. Non v’è relazione significative fra inquadrature e personaggi, i dialoghi sono banali e artefatti, quando l’inquadratura si stacca dai visi vengono proposte ardite e graziose sequenze, come la corsa iniziale della metropolitana, prive di valore narrativo. Il film dovrebbe mostrare l’origine di una condizione di stress post-traumatico ma il risultato è privo di qualsiasi credibilità psichiatrica. Il Mostro confessa che, a metà della proiezione, è fuggito dalla sala.
Infine Miss Marx di Susanna Nicchiarelli, della quale si era visto un paio di anni fa il bel Nico, biopic sugli ultimi anni della cantante dei Velvet Underground. Anche qui la storia di una donna sfortunata e brillante, portatrice di un cognome importante e pesante, che finirà come quella sempliciotta della signora Bovary. Un film in costume che riprende la lezione degli ultimi lavori di Mario Martone, ad esempio la scelta di affiancare a una precisa ricostruzione d’ambiente musiche moderne, versioni elettroniche di musica romantica e pezzi di punk estremo. La narrazione si sviluppa per episodi autonomi, si infila in lungaggini che ne spezzano il ritmo e lo degradano. Insomma, ancora televisione, buona televisione ma non cinema. Materiale per una miniserie per Netflix.

Il Mostro Marino alias S.M.

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