FINALE DI STAGIONE

Lido di Venezia | Domenica 13 settembre 2020
Le lande periferiche, le waste land che hanno inghiottito civiltà millenarie, cittadine fantasma o solo stagioni balneari, sono stati i luoghi di numerose pellicole. Il prototipo è L’ultimo spettacolo di Bogdanovich, ma altri film vengono alla mente, Sonatine di Kitano, molte sequenze di Wenders, La ballata di Stroszek di Herzog… In queste lande, di tanto in tanto, appare un improbabile eroe, un puro folle (o un puro idiota), un Don Chisciotte, un Sigfrido o un Parsifal, che sfidano la desolazione dei luoghi. È il caso del film kazako Gatto giallo, dove il protagonista, che ha conosciuto solo frammenti di film nell’orfanotrofio dove è cresciuto, vuole costruire, come Fitzcarraldo con il suo teatro, un cinema in mezzo al nulla. La messa in scena appare debitrice del citato film di Kitano. Quello che sembra un idiota rivela più fantasia e inventiva, anche criminale, dei gretti abitanti della steppa. Ben girato, buon ritmo, nel finale un elicottero nella steppa rimanda all’Elettra di Jancsò.

Ritorna il tema del lutto non risolto in Nomadland, ma anche quello delle periferie della civiltà e dell’esistenza. Perfetto prodotto della cinematografia americana, che si muove fra crudo realismo e aperto sentimentalismo, grande prova attoriale di Frances McDormand.
Il film ci introduce alla vita dei vagabondi americani in camper, che si spostano di stato in stato cogliendo lavori temporanei nei centri logistici di Amazon, nei campeggi estivi, nella raccolta delle barbabietole. Vagabondi che non si considerano homeless ma houseless, vagabondi con assicurazione sanitaria, il cui focolare è il furgone, la cui marginalità e nomadismo sono dovuti, più che a ragioni economiche, al tentativo di allontanarsi da luoghi e memorie carichi di dolore. Il lutto della protagonista va oltre la morte del marito, è la scomparsa di un’intera città che viveva per una fabbrica di cartongesso che ha chiuso. La protagonista è in fuga non dal dolore ma dal suo superamento, che significherebbe dimenticare per sempre chi ha perso. Potrebbe essere accolta in una camera con un comodo letto, preferisce andare a dormire nell’angusto furgone parcheggiato in giardino.

Genus Pan di Lav Diaz ha tutte le caratteristiche per soddisfare i perversi gusti cinematografici del Mostro. Film fluviale, nel quale i tempi lenti della rappresentazione mimano quelli che tre uomini vivono in una selva oscura evocatrice di istinti irrefrenabili e memorie dolorose. Bianco e nero di incredibile bellezza, ogni scena girata da un’inquadratura fissa, senza movimenti di macchina, senza primi piani, sviluppando tuttavia una sintassi cinematografica che mai sfocia nel teatrale. Eisenstein, che detestava la commistione fra teatro e cinema, nelle Lezioni di regia, propone come esercizio la realizzazione di una scena con camera fissa, l’uccisione dell’usuraia in Delitto e castigo, da Dostoyevsky.
Tutto il film di Diaz è un susseguirsi di delitti senza castighi e, nel finale, di sacrifici di innocenti. È la stessa tematica di Nuevo orden, anche se sviluppata secondo una logica estetica diametralmente opposta: la violenza epidemica e mimetica che, in condizioni di annullamento della trascendenza giudiziaria, avvolge tutti. René Girard, ne La violenza e il sacro, propone il rituale del sacrificio dell’innocente, del capro espiatorio, come originario e universale dispositivo simbolico posto ad argine alla violenza generalizzata, a questa essenza animale inscritta nel nostro patrimonio genetico. Suggerisce tuttavia il superamento della logica del capro espiatorio da parte di due sistemi simbolici storicamente più recenti, la nascita delle regole giuridiche e la dottrina cristiana, nella quale la divinità offre se stessa quale vittima sacrificale e salva la vittima innocente dal sacrificio. I tre protagonisti attraversano la selva nei giorni che precedono la Quaresima, violano il precetto di non mangiare carne il Mercoledì delle Ceneri e, nel finale, gli ultimi, insensati e ingiusti omicidi avvengono il Venerdì Santo, mentre si svolge una processione segnata da stazioni di preghiera per ognuno dei Comandamenti della Legge.
Il Mostro saluta i suoi affezionati lettori e si immerge. Di questa anomala Mostra del Cinema rimpiange l’assenza delle retrospettive che gli consentivano di godere dei capolavori del passato, possibilmente in bianco e nero. Rimpiange i film scoperti per caso, magari perché c’era poca fila all’ingresso, le discussioni con sconosciuti durante le file. Poi, per sua forma mentis, detesta prenotazioni e password. Comunque, come ha detto il suo amico Marcello, per noi di bassa statura il distanziamento è una manna. Riflettere per iscritto sui film che ha visto, sostiene il Mostro, è un esercizio prezioso di lubrificazione dei tentacoli e delle meningi. Tornerà quindi a proporvi ancora le sue riflessioni. Al prossimo anno. Spluf. Glub.
Il Mostro Marino alias S.M.