“Love Life” di Kôji Fukada
La profonda interiorizzazione delle norme e delle consuetudini sociali dei giapponesi genera un’immagine molto più rassicurante delle consuetudini sociali del Sol Levante se confrontate con quelle nordamericane. In “Love Life” (che tradurrei come “Amore e Vita”) un quartiere di casermoni di periferia architettonicamente non dissimile dalla Secondigliano di “Gomorra” è invece un’isola di ordine, pulizia e rispetto reciproco come in una comunità rurale, mentre le istituzioni cittadine sono attente e rispettose delle esigenze degli homeless, alla assistenza dei quali lavora la protagonista. Sarà un lutto improvviso e tremendo a portare a galla i drammi che accompagnano il costante contenimento delle emozioni, il conflitto fra vincoli di sangue e relazioni liberamente instaurate, l’ostilità verso una donna sposata reduce da un divorzio. Il film segue passo dopo passo l’elaborazione del lutto, la riscoperta e l’accettazione del passato e della compassione, fino all’affermazione di un rinnovato legame coniugale. Tutto è descritto con una raffinata semplicità erede del cinema classico giapponese. La riscoperta della tenerezza passa anche dall’ingresso nella vicenda di una gattina.
Il Mostro Marino alias S.M.