“Shab, Dakheli, Divar (Oltre il Muro)” di Vahid Jalilvand
“Beyond the Wall”, dall’Iran, in concorso. Ancora una lezione di cinema da questo Paese. Inizia come una storia iper realista, un fallimentare tentato suicidio, un uomo chiuso in una casa, una ingravescente cecità. Sembra di scorrere le stampe di George Grosz degli anni di Weimar: reduci di guerra, invalidi miseri e soli, abitazioni spoglie, muri scrostati. Col procedere della narrazione, però, si verificano degli apparenti errori di montaggio, lo stesso dialogo viene proposto in scene differenti, alla luce del sole nei flashback e nella penombra della casa, la scena per pochi attimi appare ripresa da una telecamera di sorveglianza, crescono incongruenze nella trama che include una donna disperata che ha ripetute crisi epilettiche. Questi salti logici, temporali, narrativi, lungi da disturbare o disorientare lo spettatore, generano suspense e attenzione ed espandendosi divengono il cardine della narrazione. Oltre il muro della cecità e dell’oppressione poliziesca, nel frammentarsi della temporalità generata dall’epilessia, ricordo sogno e rêverie si fondono e generano un universo dove i nessi causali e temporali sono sovvertiti e rispecchiano una condizione celata della psiche. Un risultato così elegante e incisivo che Nolan, in “Inception” o “Interstellar”, se lo sogna. Sogno, come alcuni interpretano la narrazione di “C’era una volta in America”. E per un attimo, nel finale, il protagonista replica il sorriso in macchina di De Niro nella fumeria d’oppio.
“Anhell69” di Theo Montoya
Poi, finalmente un film di cui dire il peggio. Dalla Settimana della Critica, “Anhell69” di Theo Montoya. Preceduto da un corto di allievi del Centro Sperimentale, il cui scenario evoca potentemente uno dei primi successi di Laura Pausini, ecco un film sulla scena gay e trans di Medellín, Colombia. Un breve lavoro che non è fiction e non è documentario ma che gronda inautenticità lungo tutti i 79 minuti di durata. Non c’è sviluppo narrativo o articolazione della documentazione, non c’è argomentazione. Solo un ripetuto lamento in tono predicatorio da parte della voce fuori campo dell’autore, interessato solo a stupire, scandalizzare e rivendicare l’autoisolamento dei personaggi. Potrebbe essere un film sui punk degli anni ‘80, su una comunità mormone o sui galeotti della Siberia. Cambierebbe poco.
Il Mostro Marino alias S.M.