“Chiara” di Susanna Nicchiarelli
Lido di Venezia, 10 settembre | Susanna Nicchiarelli aggiunge un altro capitolo alla galleria di donne determinate e di talento che si scontrano con l’ottusità delle norme e delle consuetudini sociali. Con “Chiara” illustra con precisione cronologica la vicenda della mistica umbra che, sull’esempio, la scia e il mandato di Francesco d’Assisi, tentò di creare il ramo femminile del movimento francescano, presente nel mondo e votato alla povertà. L’autorità papale determinerà un radicale ridimensionamento del progetto di Chiara. La resa cinematografica di questo biopic è purtroppo molto inferiore ai precedenti lavori su Nico dei Velvet Underground [“Nico, 1988”, del 2017, N.d.R.] e su Eleanor Marx [“Miss Marx” del 2020, N.d.R.] visti gli anni scorsi alla Mostra. La forma narrativa non realizza né la rappresentazione del mito né quella della condizione materiale della donna nella società medioevale. Prevale il santino. Chiara e le consorelle sono sempre sorridenti e con gli occhi inclini all’estasi, i digiuni, le penitenze e la pervicace ricerca della povertà non lasciano segni se non sui piedi delle poverelle di Gesù. Si respira l’aria di una comunità hippie sorta fra i boschi dell’Umbria, i miracoli vengono vissuti con nonchalance, senza stupore o sgomento. Invece i mistici di ogni epoca, da Santa Teresa a Padre Pio, hanno lasciato testimonianze drammatiche dell’esperienza del contatto con l’ineffabile. Ma Chiara, in questo film, appare esercitare con naturalezza e fin da subito un talento di navigata politica nel confronto con la Chiesa di Roma. L’aspetto meno convincente è poi quello del casting. Francesco bello e impossibile, le consorelle con volti di ragazze di buona famiglia direttamente importati dagli spot pubblicitari e dalle fiction della Rai. Siamo lontani dalle raffigurazioni di Giotto o da quelle del Vangelo di Pasolini, ma anche dai volti del “Francesco d’Assisi” del 1966 e di “Milarepa” della Cavani [del 1974, N.d.R.]. Un film che è stilisticamente fuori tono.

“Les Miens” di Roschid Zem
Poi due film francesi che ritornano sulla tematica del rapporto fra la Francia e i suoi cittadini di origine nordafricana. In ambedue si tratta di persone altamente inserite, economicamente e culturalmente, nella società d’Oltralpe. Lacan notava che i casi da lui trattati in analisi di africani di censo elevato non differivano dagli altri suoi pazienti per produzioni simboliche e dinamiche del transfert. È così nelle narrazioni di queste due pellicole, dove le crisi familiari, le angosce e le nevrosi rispettano in pieno le dinamiche dei comuni cittadini.
In “Les Miens” di Roschid Zem assistiamo alla crisi di una famiglia allargata di francesi di origine marocchina che comprende, fra gli altri, un quadro dirigente di una piccola azienda e un affermato e ricco giornalista sportivo del piccolo schermo. La malattia psichiatrica del primo, prodotta da un trauma cranico, determina una crisi profonda delle relazioni fra i membri del clan, che affrontano il dramma in ordine sparso e giungono a rinfacciarsi le scelte di vita, le incomprensioni e le invidie covate da tempo gli uni verso gli altri. Ma le relazioni familiari reggono, la solidarietà a fatica prevale e la lenta guarigione del dirigente d’azienda accompagna il restauro dei sentimenti d’affetto e mutuo sostegno verso un credibile happy end. Il senso della famiglia della cultura magrebina alla fine prevale sull’individualismo della cultura europea. Notevole, ben girato, recitato e scritto magistralmente.

“Saint Omer” di Alice Diop
“Saint Omer” di Alice Diop, vincitore del Leone d’Argento e del Leoncino per l’opera prima, descrive la nevrosi di una giovane e brillante docente universitaria e scrittrice francese di origine africana (le conseguenze e le virtù dello ius soli!) che assiste al processo per l’infanticidio perpetrato dalla madre, una studentessa universitaria di origine senegalese. I media e la Corte stentano a comprendere il gesto di una giovane africana che “parla un francese perfetto” e che non rispetta gli stereotipi etnici con i quali ci si approccia al caso. La protagonista giunge a riconoscere nella rea confessa gli stessi condizionamenti da sua madre che ha fatto ogni sforzo per condurla al successo attraverso gli studi. La follia dell’infanticida e la nevrosi della protagonista, l’ambizione sociale della madre della prima (che le ha proibito di parlare la sua lingua, il wolof) e la sofferenza psichica di sua madre, si corrispondono gettandola in un’angoscia che rimane senza risposta. Un film duro, oggettivo, di taglio illuminista, dalla sintassi più teatrale che cinematografica, che rappresenta una novità nella cinematografia europea ma che è stato poco apprezzato dal pubblico in sala.
Il Mostro Marino alias S.M.
[…] ruotano tutte intorno la tematica inclusione/esclusione dei cittadini di origine araba e africana. “Saint Omer” di Alice Diop ha meritatamente vinto il Leone d’Argento e il Leoncino per l’opera prima, ma […]