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Antes di CIE Alias

15 luglio 2019 | Prima di che cosa? Prima dell’animalità, prima dell’aggressività, prima della sessualità. Prima della socialità e della riproduzione. Prima c’era un tempo in cui gli uomini erano come alberi in una foresta.

Equidistanti uno dall’altro, eppure connessi da forze invisibili e naturali, collegati da radici sotterranee e nascoste, intrecciati con rami e foglie dall’aria piena di pollini e di semi trasportati dal vento.

Nudi come gli alberi, vestiti di luce, senza abiti, senza orpelli, senza classificazioni e gerarchie. Tutti uguali eppure singolari e unici, accomunati dalla stessa terra abitata, dallo stesso cielo.

È una sfida frontale all’immaginazione, un invito a lasciarsi andare, a lavarsi da ogni ricordo, da ogni convinzione e ad inoltrarsi nel bosco segreto della nostra identità collettiva, posseduta e poi perduta.

Una luce a pioggia illumina i corpi dei dodici danzatori distesi a terra, completamente nudi. Scossi da movimenti impercettibili, i corpi si animano. Impulsi viscerali, muscolari agitano l’apparente fissità dei corpi. All’unisono i costati si mostrano emergendo da schiene inarcate. Il rumore di un temporale e di suoni naturali si mescola alla visione di un respiro sincrono, animato da polmoni che si aprono e si gonfiano sempre più vistosamente, creando un ritmo che scorre attraverso il costato fino all’addome.

pNon sono corpi ma sezioni di corpi, che annullano l’identità dell’umano, trasformandola in qualcosa d’altro: busti e schiene che diventano tronchi e cortecce, con un rovesciamento meraviglioso delle fotografie di Edward Weston, dove il mondo vegetale diventa sensualmente carnale e umano, come nella celebre foto del Peperone.

Un tremolio sonoro, un sussulto, un terremoto di pelle e muscoli, di involucri umani svuotati e leggeri collassa sul pavimento del palco, come se la gravità giocasse a far rimbalzare i danzatori, distesi su un fianco, spingendoli verso il basso, sotto il peso di forze invisibili. Forse pioggia, o tempesta, sparsa sottile sopra di loro.

In posizione quadrupedica, come scimmie glabre, la testa rivolta verso il basso, si muovono nello spazio, alzandosi in posizione eretta e svelando la loro integrale nudità, che non è inerme, non è piena di vergogna, non è sexy, non è ammiccante. Ma è limpida come rugiada, naturale come l’acqua, trasparente come l’ossigeno che respiriamo e ci tiene vivi.

Quello che vediamo sono solo corpi, ripuliti dalle impurità della mente, del pensiero, della logica, della civiltà; spogliati di ogni ambiguità e di ogni malizia. Sono corpi in piedi, che oscillano come fusti di abete nel bosco, mossi dal vento. Un esercito silenzioso che si muove stando fermo, come un pendolo ancorato all’ingranaggio, come un albero attaccato alle radici.

Poi, un altro quadro trasforma i corpi sulla scena. Una deformazione innaturale dello sterno, che sarebbe forse piaciuta a Francis Bacon pur non avendo nulla di carnale né di violento, prepara una nuova figura, una nuova forma naturale. Come chiodi di legno puntati per terra, alzano un braccio e lo tendono verso l’alto; scendono e si inchinano verso il basso, mostrando le loro schiene lucenti, equidistanti.

All’improvviso, si sparpagliano in arabesque che li congela come tavole di legno distese su una gamba; si appuntiscono in mani e braccia come guglie di una cattedrale invisibile; si inchinano nuovamente verso il basso, in un elegante e rigoroso equilibrio che gonfia in un abbraccio gambe e braccia, per poi nuovamente, pendere eretti ed equidistanti, e ritornare foresta. Girati di schiena, con la testa incassata nel petto e le gambe divaricate come un compasso si trasformano in creature acefale che si stendono a terra, si allungano su un fianco come linee orizzontali, si assottigliano meravigliosamente allineandosi con il pavimento, mentre una danzatrice si alza e spicca un salto verso l’alto, disegnando una linea verticale perfetta e senza ego.

Un nuovo quadro riconfigura la scena. Tutti i corpi si siedono a terra, di profilo, con una posa da Pensatore di Rodin moltiplicata. Poi ci mostrano la loro nudità in modo frontale. Ma ormai l’occhio non percepisce più corpi di uomini e donne ma creature di un mondo vegetale. Così vediamo seni come occhi, il costato come volti, il sesso come bocca, in un avventura dello sguardo levigata e leggera.

Ma c’è un escamotage che cambia tutto: i corpi diventano un organismo pluricellulare, si aggregano, si trasformano in una montagna, in un conglomerato lavico che erutta se stesso. La sorpresa del contatto tra i corpi in scena fa pensare ad un vulcano, al calore del fuoco, allo strato animale che, finalmente, reclama se stesso.

Anna Trevisan

Operaestate Festival
15 Luglio 201, Teatro al Castello, Bassano
Antes / CIE Alias
Coreografia: Guilherme Botelho
Assistente e Interprete: Claire-Marie Ricarte
Light design: Jean-Philippe Roy
Interpreti: Amaury Réot, Carl Crochet, Erica Bravini, Erik Lobelius, Fabio Bergamaschi, Linn Ragnarsson, Louis Bourel, Sophia Preidel, Veronica Garcia, Victoria Hoyland, Arnaud Bacharach
Luci originali: Jean-Philippe Roy
Musica originale: Fernando Corono – « Murcof »
Tecnico: Davide Cornil
Produzione: Cie Alias
Co-produzione: Théâtre Forum Meyrin, Théâtre du Crochetan
Supported by: Città di Meyrin, Città di Genova, Cantone di Geneva, Pro Helvetia – Swiss Foundation for the Promotion of Culture

Your Girl | Alessandro Sciarroni

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21 giugno 2019, Biennale di Venezia, Teatro alle Tese | Luci di sala accese. Il pubblico biennalino prende posto in compagnia della spensierata musica di Electric Girl. Si respira una strana euforia nell’attesa dell’inizio. Your girl è infatti la prima creazione (2007) di Alessandro Sciarroni- Leone d’Oro alla Danza 2019.

In scena due performers meravigliosi: Chiara Bersani –già Premio Ubu 2019 come miglior attrice e performer under 35 – e Matteo Ramponi, i quali hanno stretto con Sciarroni una lunga e fortunata liaison artistica ed umana, tuttora vivissima, tant’è vero che Bersani compare tra le consulenti della drammaturgia di Augusto (2018), spettacolo nel quale è in scena anche Matteo Ramponi.

Chiara Bersani e Remo Ramponi sono già sul palco, in punti diametralmente opposti. Lei ha gli occhi chiusi, serena e immobile sopra la sua sedie a rotelle, in una rapita ricerca di concentrazione. Lui è seduto a torso nudo sotto una pioggia di stelle filanti di tessuto, che poi scopriremo essere calzini di spugna. Indossa pantaloncini corti e prosaici, stucchevoli calzettoni, di quelli adorati dagli adolescenti in scarpe da ginnastica.

Lei è piccina e disarmante, avvolta in un silenzioso abito bianco con dei grandi fiori sul petto. Lui campeggia enorme e scultoreo, lontano e inarrivabile. Lei sembra aspettarlo, in tono dimesso ma speranzoso.

Lentamente, Chiara scende dalla sua sedia a rotelle e si avvicina al bidone dell’aspirapolvere al centro del palco. Con un piede dà un calcio alla sedia a rotelle e si appoggia al bidone. Sembra sorriderci, di un sorriso svagato, distaccato di chi è qui, ma pensa ad altro. Poi, con una mano, si palpa i grossi fiori bianchi che le decorano il corpetto e li stacca, uno ad uno, disfandoli in lunghe bende bianche, che fanno pensare a garze e ferite da medicare, a fazzoletti di carta per soffiarsi il naso e asciugarsi le lacrime, a carta igienica da buttare. All’improvviso, con un dito, Chiara aziona l’aspirapolvere, premendo un pulsante. “He loves me” –dice, staccando un altro fiore bianco dal suo vestito. Di nuovo aziona l’aspirapolvere, che le ventila i capelli come fosse in posa per qualche foto servizio di moda. Lui tace passivo e distratto, irremovibilmente seduto.

“He loves me not” – dice lei con un filo di voce, dolce e sottile, mentre il suo corpo di donna così diverso illumina la sala, sconcertando gli occhi, sempre più abituati a vedere una fisicità femminile monocorde, standardizzata e senza sorprese, che imita le curve di Barbie.

Lei infila con le dita dentro al buco dell’aspirapolvere tutti i fiori che si stacca dal petto, facendoli ingoiare con rumore meccanico e ripetuto. “He loves me not” – dice, continuando gentile l’altalena amorosa del “M’ama, non mama”. Mentre un altro fiore disfato viene ingoiato dal phon/aspirapolvere/bidone, lui si toglie un calzino e se lo rammenda con ago e filo. Lui cuce, per se stesso. Lei disfa, per lui.

Lui srotola un rocchetto di filo e rammenda un altro calzino. Lei si toglie le vesti, scoprendo i seni. La sua nudità emoziona come un fiore nella neve. Lui si rimette i calzini, si alza e si dirige verso la sedia a rotelle, che sposta e allontana. Poi, le si avvicina. Lei lo guarda avvicinarsi, con un’intensità di sguardo che solo la presenza in carne ed ossa può restituire. Negli occhi di Chiara si concentra un universo intero, una narrazione, un viaggio emozionale di andata e ritorno verso l’amore, il suo fuoco speranzoso, il suo disincanto, la sua passione, la sua tenerezza.

Si guardano. Lui si spoglia, scoprendo un corpo perfetto e tornito. Si copre le pudenda con i pantaloncini. Poi glieli offre. Lei li infila nel buco dell’aspirapolvere. “I love him” (“Io amo lui”) – dice lui, chiudendo ogni speranza di reciprocità amorosa. Lui si sfila i calzini e glieli porge. Lei li prende e di nuovo, con precisa, sorridente sicurezza, li infila nell’aspirapolvere.

Che cosa pulisce quell’aspirapolvere, da che cosa pulisce, non lo sapremo mai. Possiamo solo immaginare che Madame Bovary/ Chiara Bersani si inchini al destino e con grazia lo incorni, cambiando il finale di una storia già scritta, e preparandoci a vedere l’impensato.

Intanto, la musica pop di Tiziano Ferro intinge di miele la visione di quei due corpi nudi, così vicini, così lontani, facendoli incontrare di fronte a tutti noi. Loro, in piedi davanti a noi, si danno la mano, come bambini felici, come angeli caduti qui su questa terra, e solo di passaggio.

Anna Trevisan

Biennale Danza
21 giugno, Teatro alle Tese, Arsenale, Venezia
Your Girl (2007, 20’)
Invenzione: Alessandro Sciarroni
Performers: Chiara Bersani, Matteo Ramponi
Elementi visivi: Elisa Orlandini
Produzione corpoceleste_C.C.00#
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Augusto | Alessandro Sciarroni

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21 giugno 2019, Biennale di Venezia, Teatro alle Tese | Di spalle al pubblico. Seduti a gambe incrociate, in una penombra dove il bianco del fondale riflette pensieri sconosciuti. Comincia così Augusto, l’ultima creazione di Alessandro Sciarroni, Leone d’Oro della Danza 2019.

Il primo ad alzarsi da terra è il performer Remo Ramponi, che inizia a camminare in circolo, scandendo attento i passi. Roberta Racis si alza e lo segue, inaugurando una marcia circolare e ritmata, in vestiti casual, t-shirt e jeans dalla foggia vagamente anni ’80. Una marcia cadenzata, sincopata, che coinvolge uno ad uno tutti i nove performers in scena, tra sguardi complici e sorrisi. Verso dove marciano tutti? Il punto di domanda si costruisce in forma di cerchio. Non è verso dove, forse, ma per chi è questa marcia allegra.

Qualcuno dei nove performer inizia a ridere, e la marcia diventa una camminata esilarata, con cambi di ritmo e variazioni dello schema. Qualcuno si stacca dal gruppo, rompe il cerchio. Inaspettatamente, tra il pubblico c’è chi scoppia a ridere, in modo irrefrenabile. A gruppi sparsi, con direzione invariata, la marcia di risate continua. Qualcuno si stacca dal gruppo, che continua a marciare coeso e compatto, in una sorta di rovesciamento del coro tragico, che ride, ride, ride, continuandosi a muovere nello spazio, con elastico e scanzonato dinamismo. La fisicità brillante e vivace di Roberta Racis guida gli altri performers intorno ad un’intangibile, perduta gaiezza, travolgendoli con una risata dirompente, spensierata, che evoca una serenità mitica e lontana, di tempi perduti.

Il movimento dei corpi sulla scena, infatti, crea e suscita spazi aperti, aria, vento, luce, prati verdi e tempi colmi di amicizia. Una musica luminosa incoraggia la danza dinoccolata di un serpentone umano, così infantile, così giocoso, che poi sbanda, si scioglie e si sparpaglia. La risata è quella cristallina dell’innocenza perduta, una riemersione dal passato, quando il gioco era correre e rincorrere, prendersi per mano innamorati e girare fin quasi a perdere l’equilibrio e cadere.

Poi, irrompe una pausa, sfinita di risate. A gruppi di tre i performers continuano a marciare. Racis continua a ridere, in una risata zampillante e sola. Gli altri zitti. Una voce celestiale canta un madrigale. Quando il canto finisce, tutti lo commentano con una indecente risata. Si sente un rumore di respiro meccanico, come di stantuffo. Forse è il suono di un respiratore meccanico? Si introduce una variazione, un cambio di toni emotivi, che vira dalla gaiezza a qualcosa di più cupo, quasi tetro, come un accento di morte, di pericolo incombente. La partitura sonora è cadenzata da quel suono sinistro di respiro non umano. Un urlo rompe le risate. Ma una cascata più forte di risa esplode irrefrenabile sopra quell’urlo, coprendolo. L’alone di una minaccia incombente, di qualcosa di terribile che miete morti e vittime, che incute una fredda paura, viene nuovamente seppellito da risate sguaiate. Scoppiano urla isolate, che sanno di torturatori e di torturati, di uccisioni e di uccisi. Urla che sono accolte ancora una volta da irresponsabili, colpevoli, irrefrenabili risate. La risata si è trasformata nella voce volgare dell’abuso di potere, che seppellisce l’impotente. È la risata ebete ed automatica della “società dello spettacolo”, che si consuma lunga, senza aver nemmeno compreso la gravità dell’evento del quale sta ridendo.

Eppure, il valore eversivo della risata in Augusto sembra tenacemente riuscire a sopravvivere. Nonostante le esecuzioni continue, sommarie, indiscriminate, che si consumano nell’esilarato torpore generale, nella nebbia di risate che offusca tutti.

Si leva un urlo di rivolta, subito sommerso da uno scoppio di risa, consumate in coro, a braccia allargate, in uno dei momenti coreograficamente più intensi ed emozionanti della performance. I corpi come croci di carne, spalancati, ridono dalla bocca e dai denti, lo sterno inchiodato all’indietro. Poi, una variazione gestuale, incalzata dalla musica, apre all’interpretazione. “Non vedo-non sento-non parlo”, dicono i corpi senza parlare, in coro, mentre un canto solitario e lirico si alza sulla musica. La scena si trasforma in un lucido incubo di disumana follia, con grida disperate nella mischia. I corpi raccontano di pugni dati e presi, di sconfitte inflitte e subite, di lotta e di catene. Braccia divaricate e sterno all’indietro, i performers ripetono come un terribile, fosco monito la frase gestuale: “non vedo-non sento-non parlo”. Le risate che coprono l’urlo del soccombente sono visivamente assordanti perché omertose, conniventi e complici di crimini orribili che Sciarroni racconta di un futuro presente e speriamo mai reale. Ma la risata si fa risata del soccombente, del martire, del resistente, che annega le risate del potere sugli inermi.

“Ci sono persone capaci di vedere la filigrana delle cose, una realtà che non c’è o che non c’è ancora”- ha scritto qualcuno. Sciarroni, scriviamo noi, è tra queste, con in più il dono di saper rappresentare quello che vede, di saperlo comunicare, trasmettere, raccontare.

Non è una performance sulla risata l’Augusto di Sciarroni ma una performance sul potere e sulla sua indecente, mistificante, indebita appropriazione della risata che, da arma critica ed eversiva, si trasforma in assordante amplificatore del piacere del dominio sull’altro o, peggio, dell’indifferenza al dolore dell’altro.

Non è la risata del giullare, che irride e dissacra il potere costituito, che lo ridicolizza, che lo dileggia. È piuttosto il suo rovesciamento. Non è la risata dell’innocenza ma l’irrompere del mostruoso e del disumano, che giganteggia sugli inermi. È la risata figlia di quella “società dello spettacolo” profetizzata da Guy Debord. Una risata che è denigrazione del più debole, dell’inerme. Una risata che è nemica aperta della fragilità, negazione ostinata di ogni bellezza e sinistra alleata del potere costituito.

Augusto è un magistrale, potente j’accuse, scagliato contro tutti noi, spettatori ignavi. Augusto è una scomoda, lunga domanda, insistente e indignata. E la domanda non è “Che cosa fare?” ma “Che cosa mai state facendo?”.

Eppure, nel finale c’è l’affiorare flebile di una riscossa: la risata del soccombente, che ritrova la forza di ridere del potente e del suo attaccamento al potere, del suo perverso gusto della vessazione. Quella risata disperata, che soffoca in pianto e ritorna bambina, sovverte i codici e dissoda la potenza della ribellione e della libertà. Forse, finalmente, “una risata ci seppellirà”.

Anna Trevisan

Biennale Danza 2019
21 giugno 2019,Teatro alle Tese dell’Arsenale, Venezia
Augusto - prima italiana (2018, 60’)
Invenzione: 
Alessandro Sciarroni
Performers: Massimiliano Balduzzi, Gianmaria Borzillo, Marta Ciappina,
Pere Jou, Benjamin Kahn, Leon Maric, Francesco Marilungo, Roberta Racis,
Matteo Ramponi
Musica: Yes Soeur!
Design luci: Sébastien Lefèvre
Movement coaching, collaborazione drammaturgica: Elena Giannotti
Styling: Ettore Lombardi
Consulenza drammaturgica: Chiara Bersani, Peggy Olislaegers, Sergio Lo Gatto
Preparatore yoga della risata: Monica Gentile
Preparatore vocale: Sandra Soncini
Collaborazione artistica:
Erna Ómarsdóttir, Valdimar Jóhannsson
Direzione tecnica: Valeria Foti

Tecnico di tournée: Cosimo Maggini
Assistenza, ricerca: Damien Modolo
Promozione, consiglio, sviluppo: Lisa Gilardino
Amministrazione, produzione esecutiva: Chiara Fava
Ufficio stampa: Beatrice Giongo
Video, foto: Alice Brazzit
Produzione:
 MARCHE TEATRO Teatro di Rilevante Interesse Culturale,
CorpocelestC.00#,
 European Creative Hub – French Minister of Culture/Maison
de la Danse grant for Biennale de la danse de Lyon 2018,
Festival GREC Barcelona
, Théâtre de Liège, 
Teatro Municipal do Porto,
CENTQUATRE-PARIS
, apap – Performing Europe 2020, progetto co-fondato da
Creative Europe Programme
 of the European Union,
 Snaporazverein,
Theaterfestival Boulevard, 
Theater Freiburg (Germany)

Coproduzione: 
Tanzfabrik Berlin, Centrale Fies L’arboreto –
Teatro Dimora di Mondaino.

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Oro. L’arte di resistere | Foscarini e Dance Well

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18 aprile 2019 | “Oro! Benon benon benon!”- ripetono scaramantici e allegri in coro i danzatori prima di cominciare lo spettacolo. Perché  “oro”, in dialetto veneto, è un’espressione idiomatica che significa: “va bene, d’accordo”. La pronunciano forte, questa frase, in tono augurale e festoso, mentre sono disposti tutti insieme in cerchio. Poi, si accendono le luci di scena e il pubblico inizia ad entrare.

“Heaven. I’m in heaven” – canta la voce calda e arrochita di Louis Armstrong, mentre i ballerini danzano a coppie nella platea del teatro, trasformata per l’occasione in sala da ballo. Un uomo anziano con paglietta e bastone fa il giro del pubblico e lo saluta con un gesto antico, dimenticato: dà la mano alle persone e accenna a togliersi il cappello in segno di rispettoso saluto. Il coro dei danzatori si chiude e si schiude come un fiore, si mescola e si frantuma come i vetrini colorati di un caleidoscopio, sparpagliandosi in nuove forme e ricomponendosi in schemi noti.

La magnifica voce di Ella Fitzgerald  canta “Summertime”, riverberandosi sinuosa nell’aria e sprigionando una gioia lenta e continua nei corpi non più giovani dei danzatori, accendendoli di incredibile, luminosa sensualità. Sono tutti vestiti a festa, come a celebrare un evento importante. Le donne indossano abiti da sera dai colori sgargianti e gli uomini, su camicie bianche e inamidate, indossano cravattini e papillon. Tutti sono a piedi nudi. Così, quegli azzurroni e quei rossi accesi degli abiti femminili, quelle stoffe damascate e cangianti si trasformano in abiti scanzonati, senza tempo, che emanano una voglia intensa di gioventù, un desiderio sbarazzino di contatto pelle a pelle e di gioiosa sensualità.

Come uno stormo di uccelli migratori, i danzatori si muovono in gruppo, spostandosi nello spazio, inseguendo l’impulso e la direzione dati di volta in volta da uno di loro. Una donna si stacca decisa dal resto del gruppo. Li affronta con lo sguardo, sottomessa e rassegnata eppure con aria di orgogliosa sfida, mentre una teoria di insulti e improperi la inonda, in un italiano intenerito dal dialetto, con una prosodia storta e schietta che alleggerisce le offese: “Sta sitta!”, “Che picoeta che te si!”, “O ti o mi!”. Il coro reagisce in un unico respiro con una sincronia emozionante.

Poi, il gruppo insuffla nella gestualità quella sublime semplicità tanto cara a Pina Bausch, che per una sorta di memoria indiretta si incarna epifanicamente in quei corpi in scena, tornando a danzare attraverso di loro, con quelle braccia e quelle gambe invecchiate, a tratti scosse da un tremolio di foglie in procinto di cadere eppure ancora saldamente appese al ramo, illuminate dalla luce calda del sole.

Quando il coro si disperde poco a poco a terra, si annuncia uno dei dei momenti più drammatici dello spettacolo. Sulle note di Summertime il drammaturgo e attore Cosimo Lopalco declama lapidario i nomi dei 31 partigiani impiccati in viale dei Martiri a Bassano del Grappa il 26 settembre 1944.

Quei nomi sconosciuti, da alcuni probabilmente mai sentiti pronunciare e dissepolti così all’improvviso, dissotterrati da uno scomodo passato, creano un potente cortocircuito con i corpi danzanti sulla scena, che cadono a terra, uno ad uno, senza vita.

Lo shock della storia, il suo dolore mai abbastanza raccontato perché dimenticato sotto la retorica della vittoria, riemerge con forza, prolungando superbamente il significato di resistenza, ramificandolo, dandogli radici. Quei corpi non più giovani di danzatori parkinsoniani, che hanno scelto la danza come forma di resistenza alla malattia, sono commoventi perché antiretorici, antieroici, semplicemente e liberamente umani. Sono commoventi, come la memoria di quegli sconosciuti corpi di partigiani impiccati per rappresaglia dai nazifascisti.

Il culmine della commozione etica ed estetica arriva nella scena successiva, quando una delle danzatrici, così autenticamente bella e senza tempo, danza sfinita davanti al suo anziano pretendente, che le dedica appassionate frasi d’amore, in un dialetto tenerissimo e dolce. Un climax ascendente di respiri, bracciate e parole d’amore che annega inaspettato nelle note di Bella ciao cantata in inglese.

In quei corpi in scena, così fragili e sinceri, sfilano le anime dei morti e le loro storie ordinarie e quotidiane, dimenticate e infangate dalle polemiche o dalle rivendicazioni, ricordandoci che la vita così come la morte è cosa più concreta e reale della retorica.  In quei corpi vive un ricordo struggente, conficcato nel presente di tutti noi: un baluginio dorato, che brilla senza tempo attraverso le vite degli altri, invitandoci a vivere e ad amare la vita. Senza fine.

Anna Trevisan

 

Danza in Rete Festival
18 aprile 2019, Teatro Civico di Schio (Vicenza)
Oro.L'arte di resistere
Da un'idea di: Francesca Foscarini e Cosimo Lopalco
Coreografia: Francesca Foscarini
Drammaturgia: Cosimo Lopalco
Creato con gli interpreti di Dance Well di Bassano del Grappa: Paola Agostini, Vittoria Battistella, Anna Bragagnolo, Franca Beraldo, Paola Bertoncello, Giuseppina Cavallin, Silvana Cucinato, Luisa Dalla Palma, Bruno Gusella, Cosimo Lopalco, Giorgio Marchioro, Maria Rosa Martinello, Luciana Pilati, Erminio Pizzato, Giovanni Pizzato, Mario Pomero, Cristina Pulga, Mario Sartore, Elena Scalco, Annì Scodro, Daniela Scotton
Supporto al processo creativo: Anna Bragagnolo e Cristina Pulga
Musiche: Cheek to Cheek e Summertime di Louis Armstrong & Ella Fitzgerald, Strange Fruit e Summertime di Billie Holiday, Bella Ciao di Anita Lane, Senza Fine di Ornella Vanoni, As Time Goes By di Ingrid Bergman & Dooley Wilson
Durata: 30 minuti
Produzione: Operaestate - CSC

 

 

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Avalanche | Marco D’Agostin

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25 febbraio 2019 | Che suono ha una valanga? Che colore ha la fine? Un vapore bianco riempie gli occhi di neve; riempie la bocca, le orecchie, il respiro. Dopo una valanga il corpo umano resta prigioniero in una gabbia immobile di silenzio, in attesa di essere liberato. Si può continuare a danzare sepolti da una valanga? Tecnicamente no. Ma la mente si ribella alla furia drammatica della natura, così come alla violenza esausta del flusso ininterrotto di dati che ogni giorno la stordiscono e la sommergono. Sì, si può continuare a danzare. Nonostante una valanga abbia seppellito i nostri corpi, perché quanto in noi è invisibile, intangibile eppure vivo resiste. Resiste a lungo, sotto l’alito freddo della neve, prima di spegnersi. Resiste a lungo sotto la mole di informazioni, di pixel e di ricordi.

È dalla memoria, infatti, che si genera la nostra capacità di resistenza. Una memoria che arriva dal nostro passato: quello personale, quello familiare, quello sociale. Una memoria che nello spettacolo di Marco D’Agostin è stupendamente e acutamente filtrata da parole pronunciate  in 5 lingue diverse: portoghese, francese, inglese, italiano, spagnolo. Una memoria protetta dalla parte più sconosciuta e segreta del nostro cervello, che tutto archivia, che tutto dimentica. Una memoria frammentata, che tenta di sopravvivere alla catastrofe, senza annegare nel mare magnum di dati, nel caos terribile della fine.

In tute da lavoro blu, o forse abiti post-apocalittici, i due performers abitano la scena muovendosi lentamente. I loro piedi scalzi e le loro braccia nude spiccano sul nero del fondale. I loro gesti calmi, ponderati, quasi rallentati, sanno di allunaggio, di atterraggio spaziale. I loro occhi scrutano quelli del pubblico tra le luci di sala rimaste accese.

“We’ll try to remember everything. Tutto quello che vedrete è già accaduto. Davvero” – annunciano in tutte e 5 le lingue mentre le loro voci vellutate e sinuose entrano nel loop circolare della traduzione multilingue fino a spezzarsi, incepparsi, interrompersi, come quando il nastro dell’audiocassetta si inceppa, rendendo impossibile decifrare il contenuto del messaggio, l’interezza delle frasi.

Su questa impossibilità del dire (e/o forse dell’ascoltare) il contenuto del messaggio si costruisce tutto lo spettacolo. Attraverso una frammentazione continua, più o meno sincopata, di racconti, di frasi, di parole, di suoni intercettiamo ricordi, mozziconi di storie, citazioni rubate da video su Youtube o da sitcom televisive, versi di poesia, frasi di libri; note di una hit estiva; battute tratte da film o da serate con gli amici, tra elenchi di nomi propri e di nomi di nazioni. Lapilli, micro-esplosioni di non senso pronunciate mentre i loro corpi compiono dei gesti, instancabili. Mentre le loro mani e le loro braccia spostano lo spazio, lo muovono e innescano suggestioni. Mentre i loro piedi e le loro gambe sopportano pesi invisibili.  I loro corpi morbidi danzano sul palco sempre più rarefatti, come ologrammi proiettati da un’altra dimensione. La pellicola è rovinata ma percepiamo ancora qualche frase: “La casa fu distrutta and they had to leave”; “La messa va detta cantata”; “Your mouth is holy. Everyone is holy”.

“How am I going to make it cry” canta lui,con voce sorprendente e celestiale, mentre il vuoto sulla scena ci spalanca improvvisamente le porte dell’immaginazione: lo spazio immenso, le stelle, il cosmo, l’abbandono del pianeta terra, il ritorno irrompono. I nostri corpi si dilatano insieme ai loro, nell’eternità sospesa dello spazio cosmico. Lui si muove orbitale intorno a lei, la piange dopo la catastrofe avvenuta. Poi, lei si mette in ginocchio. Insieme si scaldano le mani intorno ad un invisibile fuoco, che tutti noi del pubblico sentiamo, percepiamo, vediamo. “Che cosa hai visto? “A hole, un buco sulla terra”. “Some food in a plate”.  Schegge di vita passata o forse di vita futura si conficcano nella nostra memoria, che resta assorta in un buio messianico. Tra accenti di  poesia e di criptata profezia.

Anna Trevisan

Danza in Rete Festival
23 febbraio, TCV-Teatro Ridotto, Vicenza
Avalanche
Coreografia: Marco D'Agostin
Interpreti: Marco D'Agostin e Teresa Silva
Suono: Pablo Esbert Lilienfeld
Luci: Abigail Fowler
Movement coach: Marta Ciappina
Vocal coach: Melanie Pappenheim
Direzione tecnica: Paolo Tizianel
Cura e Promozione: Marco Villari
Coproduzione : Rencontres Choréographiques Internationales de Seine-Saint-Denis, VAN, Marche Teatro, CCN de Nantes
Con il supporto di: O Espaco do Tempo, Centrale Fies, PACT Zollverein, CSC/OperaEstate Festival, Tanzhaus Zurich, Sala Hiroshima, ResiDance XL
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Danzare il silenzio | Ingrid Berger Myhre e Lasse Passage Nøsted

 

FONTANA

È un’oscillazione continua tra geometria della forma e fluidità del contenuto, tra suono artificiale e naturalezza del gesto, nel silenzio, tra il pulsare di un minimalismo musicale e coreutico e il distendersi di una narrazione immaginifica lo spettacolo della coreografa Ingrid Berger Myhre e del musicista Lasse Passage Nøsted.

“We are at the very beginning of the process” – puntualizza Ingrid con quei suoi occhi nordici di gatto, allungati e selvatici. Eppure, questi appunti sparsi assumono un’interezza di senso e di struttura che sorprendono, congedando gli autori dalle proprie intenzioni e sgranando al pubblico un umorismo impensato, come confesseranno nell’incontro a fine serata.

Il rumore emesso da un foglio di carta blu e da un foglio di carta verde, strofinati ritmicamente sulla superficie di un tavolo, costruisce immediatamente una frase sonora e drammaturgica. Lo strusciare del gesto e del suono prodotto dai due performer crea subito una cornice. Quello strofinio lento e poi veloce, con pause e variazione di intensità, dal pianissimo al forte; quel ripetersi cadenzato del movimento e del suono regalano allo sguardo la possibilità di immaginare chi sono quelle due persone in scena, che si ostinano a pulire il tavolo, in silenzio. Forse sono una coppia in crisi, che lava il proprio malumore, o forse due ladri, che clandestinamente puliscono le tracce dei loro misfatti o, forse, due muratori che spalmano la malta sui mattoni per costruire una casa.

Quei colorati fogli di carta, da amplificatori di un dialogo del quale non conosciamo le parole ma che immaginiamo presto si trasformano, piegati dalle mani pazienti dei performer, e diventano un oggetto nuovo: un aereoplanino che, ad occhi chiusi lanciano in aria, ognuno con una qualità e un’intenzione del gesto diversa. Lei lo lancia leggera e fluida, lui con uno schianto del gesto.

Un cambio di scena annuncia un nuovo quadro, una nuova scena, un nuovo frammento compositivo. Lui entra in scena con in braccio una chitarra, che striglia con finta inesperienza. Poi si accomoda su una sedia collocata proprio davanti al pubblico e inizia a cantare il refrain “I wonna take you home”, con una voce sublime e celestiale, che ci lascia stupefatti. Lei danza dietro di lui, nello spazio vuoto del garage. Poi la scena viene riproposta ma invertendo la prossemica: ora è lei che danza davanti a noi, e in secondo piano, lui canta, seduto sulla sedia. Questa semplice inversione nell’uso degli spazi ci fa accorgere del modo in cui si trasforma anche la nostra percezione del suono e del movimento, di come dare precedenza alla visione di qualcosa oppure la precedenza al suo ascolto determini una diversa fruizione del senso, e della struttura. E poi, di nuovo, assistiamo ad un’ennesima variazione della scena, con (umoristici) scambi di ruoli. L’esplorazione del significato attraverso la ripetizione si consuma in direttrici e direzioni eccentriche e sempre formalmente eleganti.

Altro cambio di scena, altro quadro. Seduti sul tavolo si profondono nella lettura sincrona di alcune parole, in un non-sense perfetto e musicale, che declinano in tutti i modi possibili, da variazioni di ritmo e di velocità, a variazioni nella sillabazione e nella pronuncia, perfino nella melodia, dove “Fish and chips” diventa ben presto molto più di un’oleosa e celebrata pietanza, prendendo le forme di pesci fantastici e patatine gigantesche, algida fauna ittica e tuberi commestibili, dialogo amoroso tra alghe marine, discorso interrotto tra innamorati in carne e ossa.

Infine entra il suono sintetico di un bip che trasforma lei, suo malgrado, da ninfa silvana a segretaria d’ufficio, da nota naturale ad artificio del femminile. Eccoci a sperimentare come una diversa natura della sorgente sonora sollecita un diverso immaginario e genera una divaricazione del senso. Così il ghiaccio e lo spazio che circondano la sua danza, accanto alla presenza terrosa di lui scompaiono per diventare silhouette di cartoon, attori di una gag, flebili avatar di un video-game.

Ci aspettavamo prove di spettacolo, invece abbiamo assistito ad una magistrale lezione, sulla musica e sulla sua danza.

Anna Trevisan

CSC-Garage Nardini, 8 giugno 2018
Sharing: Panflutes and Paperwork
Ideazione e perfomance: Ingrid Berger Myhre e Lasse Passage Nøsted
Sostenuto da: Arts Council Norway
Co-produzione: Dansateliers Rotterdam, Black Box Teater, CSC Bassano Del Grappa
Con il supporto di: P.A.R.T.S., Rimi/Imir Senter for Scenekunst, Moving Futures Festival, WP Zimmer

Siro Guglielmi e Giorgia Nardin | Dance out!

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Quando il codice si spezza erompe l’indefinibile, che inonda la definizione, che sommerge il conosciuto e irrora il nuovo. Ciò che è sconosciuto è diverso, divergente dagli schemi. È emersione tellurica che scuote il già noto, il già visto, il già detto, e lo strizza, lo centrifuga, lo shakera per bene, lavandone i contorni, i bordi, i confini, sfilacciandoli fino a farli scomparire.

Di che colore è il nuovo se non di tutti e di nessuno? Che profumo ha il nuovo se non tutti e più nessuno?

Lo strano, lo strambo, il fuori dal comune è una creatura esotica come l’ornitorinco, animale fantastico eppure reale che forse conosciamo dai quiz o forse dai libri di Umberto Eco e che tuttavia, con o senza di noi, esiste e nuota nell’acqua, con quelle sue pinne che sono anche zampe, con quel suo muso che è anche becco, con quel suo corpo che trasgredisce ogni classificazione.

“Queer” è la parola che racchiude tutto questo, lo sprigiona, lo contiene, lo scatena. “Queer”: detto, pronunciato, celebrato. È la chiave segreta che ci apre al linguaggio coreutico e drammaturgico di questi danzatori-profeti, che si esibiscono davanti a noi in una serata particolare – quella del 18 maggio – in cui ricorre la Giornata Internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia.

Luce, dunque, in sala. In piedi, a torso nudo e con pantaloncini sgargianti e attillati, sopra a gambe di una lunghezza efebica, c’è Siro Guglielmi. Una grammatica classica del movimento con arabesque e piquet slegati in suoni pop e plié disarticolati dal civettare delle anche. Una danza troppo ricca e traboccante, che disorienta. Instabile, mai ferma, piena di grazia eppure graffiante, ammiccante eppure pudica. Una coreografia che confonde la narrazione, che ci fa “perdere il filo” portandoci allo stordimento, mentre Bill Frisell ci consola con “The end of the world”.

E poi arriva Giorgia Nardin, con la sua scanzonata insicurezza, che dà del tu al pubblico e dà fuoco ad un bastoncino di incenso e alla nostra immaginazione. Parla, sorprendente affabulatrice e cantastorie, introducendoci ai suoi appunti, al suo diario di bordo scritto insieme ad un’artista figlia della diaspora armena, che vive in Oregon.

Ci invita a fare uno “sforzo di immaginazione”, per favore. E ci incanta gli occhi con le delizie di un giardino che non c’è, di alberi e fiori e piante e odori di spezie che non ci sono ma che esistono attraverso di lei, attraverso la sua voce e attraverso il suo corpo, offeso da orribili bermuda dorate e calzettoni che contraddicono i tessuti preziosi, i ricami e i veli che ci chiede di immaginare. E mentre ci irretisce le narici d’incenso, lascia fluire in musica un canto tradizionale armeno. Allora, all’improvviso, nonostante e proprio per quelle ascelle non depilate, per quell’abbigliamento così smaccato e antierotico, si trasforma in una creatura che danza in modo così sensuale e così teneramente, autenticamente erotico da risultare commovente. È tutte le donne e nessuna. È l’odalisca delle cartoline e la femminista arrabbiata. Ma, soprattutto, è una persona che sorride di un sorriso così luminoso, così felice da essere contagioso. Quel sorriso è l’incrocio perfetto delle civiltà sepolte e remote con il contemporaneo, è la porta che collega ai meandri segreti della memoria, che screpola il cielo di carta e indica la verità, oltre la maschera, della rappresentazione.

E danza l’incredibile ossimoro tra quello che mostra e quello che è quando danza. La dolcezza con cui indietreggia di schiena, la sensualità e l’abbandono, il languore che le divarica la pelle quando solleva le braccia sfiniscono gli occhi e trascinano via la polvere della superficie. Quando smette di danzare e si siede al tavolo, per leggere a voce alta un testo, ci ha in pugno.

“Queer” non è soltanto l’eccentricità dell’impensato, è la simultaneità delle possibilità.

Anna Trevisan

20 settembre 2019 | Note a margine. Le parole per dirlo

Caro Massimo,

ho letto solo ora il tuo commento alla mia recensione al bello spettacolo Dance Out, di Siro e Giorgia.

Grazie per quanto scrivi, perché mi hai aiutato a capire i forti limiti del mio modo di esprimermi. Sono rimasta molto male nel leggerlo, è stata davvero una piccola grande ferita, perché quanto scrivi è davvero l’opposto di quanto avrei voluto esprimere e comunicare di questo spettacolo. Evidentemente, non solo non ci sono riuscita, a tessere l’elogio del lavoro di Siro e Giorgia, che peraltro conosco personalmente, ma ho sortito l’effetto contrario. Sono dispiaciuta, avvilita e spiazzata, perché tutto intendevo tranne offendere la sensibilità e l’intelligenza del lavoro e degli artisti.

L’ornitorinco per me è un animale pieno di infinita poesia, un elogio alla vita e alla sua bellezza sconfinata e immensa, un riferimento pieno di pregnanza filosofica – perché usato e abusato nel linguaggio dei semiotici e della filosofia- un animale fantastico in ogni senso, insomma, che dimostra la vittoria della libertà sulla rigidità delle convenzioni, delle costrizioni, del già detto, del già noto, della saturazione dell’immaginario.

Lo strambo, l’esotico credo siano etichette che ben descrivono le modalità con le quali, nella cornice in cui vive la maggior parte delle persone, viene percepita la deroga alla norma. Ma nell’uso di queste parole non c’è da parte mia nessun giudizio di valore. (Chi l’ha detto che l’esotico è negativo? E perché?).

Per quanto riguarda il corpo di Giorgia e le mie parole su di lei, sono state dette con grande amore e stima: trovo che Giorgia sia bellissima e davvero brava. Ancora una volta, le mie parole su di lei hanno l’intenzione di descrivere, non di giudicare. (By the way, nemmeno io mi depilo le ascelle!).

Purtroppo, temo che anche queste mie parole usino un lessico molto lontano dal tuo e che ti stiano urtando più di prima. Forse mi hai messo schiena al muro perché il tuo è un perentorio invito a tacere (“su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”-scriveva Wittgenstein). Eppure, sento la necessità di continuare a scrivere della danza, della diversità e della bellezza, anche e proprio perché mi/ci mancano ancora le parole per dirlo.

Un abbraccio,

Anna

18 maggio 2018
CSC Garage Nardini, Bassano del Grappa
Ore 21.00
DANCE OUT!
Giorgia Nardin e Siro Guglielmi

Chiara Bersani | Gentle Unicorn

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CSC Casa della Danza, Bassano del Grappa, 24 novembre 2017, sharing di fine residenza | 

Meravigliosa creatura, maga e visionaria, che traghetta con sé tutte le anime e tutti gli occhi di chi ha la fortuna di incontrarla. Ammaliatrice, prestidigitatrice, fattucchiera scanzonata e algida pizia muta. Creatura asessuata ed eterea, uscita dalle pagine di un libro di favole. Persona in carne ed ossa, sensuale e ironica, dalla fisicità conturbante e diversa, ondivaga e fluttuante, che ricorda quella di una bambina e insieme quella di una sfinge terribile che spalanca le fauci per divorarci. Artista generosa e pungente, apparizione irriverente di un’alterità immensa. Unicorno materializzato. Guardandola, mentre si muove nello spazio del CSC, con quel cornetto bianco piantato sulla fronte, con quelle calze bianco panna che le fasciano le gambe e i piedi, crediamo a tutto. Alla sua cavalcata libera nel bosco, al suo arresto improvviso, al suo impennarsi, al suo posare fiero e stentoreo, come cavallino rampante di uno stemma araldico, come stendardo prodigioso di una nuova corporazione. Crediamo alle sue mani, che snocciolano una danza ipnotica e incalzante, che sa di trotto, e di galoppo. Crediamo alla sua schiena, mentre ci da le terga e si accuccia con una sinuosità sensuale. Crediamo ai suoi piedi di bambina e ai suoi polpacci, che si muovono cauti e forti. Crediamo ai suoi occhi, enormi ed espressivi, che tutto guardano, che tutto riflettono. Crediamo alla sua bocca, spalancata e vorace, che diventa portale, passaggio, ponte con dimensioni altre. Collegamento umano attraversato da forze cosmiche enormi e sconosciute, da tensioni gravitazionali. Corpo misterioso che respira l’Universo e lo ingoia, mentre noi lo stiamo a guardare. Corpo medium, che contiene macro e microcosmo, e costellazioni infinite. Notte nera e prodigiosa che ci regala sogni alati.

Anna Trevisan

CHIARA BERSANI 
147^ residenza coreografica
24.11.2017
CSC Garage Nardini, Bassano del Grappa

 

 

Matsushita e Yahiro | TaikokiaT Shindo

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Un grappolo di percussioni troneggia in penombra. Sono taiko: tamburi enormi, con casse di risonanza panciute come barili, di legno rosso, marrone, bordeaux. Sono corpi massicci, presenze massive. Il musicista e perfomer Mugen Yahiro li percuote, assestando colpi ritmati e profondi, che producono vibrazioni così possenti da scuotere le ossa e il cuore. Lei, Masako Matsushita, si avvita sul pavimento con una gamba sola, a testa in giù, ad intervalli perfetti, scanditi dallo schiocco dei tamburi. Come un’ascia di guerra, conficcata nell’aria. Il suono del tamburo esplode, con una forza vitale e terrificante, che polverizza l’attenzione in modo sorgivo, radicale. Lei resta ferma, seduta di schiena, in un silenzio del corpo elegante, ventre agitato e immobile del movimento suscitato dal suono, ora chiaro ora scuro e buio, in un abbraccio circolare di pieno sonoro e vuoto gestuale. Poi, lei improvvisa si rialza, e disegna gesti puliti, stilizzati, come inchiostro di china su carta. Alla fine, nel silenzio, lei e lui, di schiena, stanno in ginocchio.

“L’inizio è in verità la fine” – spiega frettolosamente un assistente, riferendosi al montaggio dello spettacolo, mentre si procede al cambio di scena e allo spostamento dei tamburi inerti. “Questo è l’insegnamento dei principi. Satori può vedere la realtà grazie alla sua profonda saggezza” – recita stentorea una voce off, metallica e profetica, e un suono di flauti si spande intorno. E mentre attendiamo il rientro dei performers, ci diciamo che, in effetti, la fine è l’inizio, e viceversa.

Furtivi e rapidi ritornano: lei sorprendente drago bianco di riccioli di stoffa, con una lunga coda e a gambe nude. Lui con indosso pantaloni bianchi e una vistosa maschera rossa dal lungo naso. Lei impugna un mazzo verde di bambù. Lui sottili bacchette che frusta musicale nell’aria. Poi, la raggiunge e impugna il fusto di bambù orizzontalmente, come fosse un peso da sollevare, con una camminata ieratica, nel silenzio.

Lei si trasforma in creatura marina, salamandra, alligatore. Insieme scuotono impercettibilmente lo scettro di bambù. Poi lo premono sul pavimento, con movenze e cadenze che evocano quelle di un rito sciamanico. I fusti di bambù sono alberi, scettri, matite con cui disegnare nell’aria segni precisi, linee misteriose, segmenti di una scrittura sconosciuta e segreta. Loro incarnano concrezioni antiche di spiriti, liberati dal tempo; creature ultraterrene; animali, piante; creature asessuate circondate da emissioni ritmate di suoni, in lotta tra loro a suon di incantesimi.

In camminate di profilo, sincrone e perfette, che fanno pensare all’iconografia dell’Antico Egitto, in gesti lenti, cauti e guardinghi resuscitano memorie archetipiche e primordiali dell’Umanità, e raccontano con delicatezza e preciso controllo estetico-formale non il semplice folklore e la superficie ma l’anima mitica di un Giappone a noi ancora sconosciuto.

Anna Trevisan

08 Febbraio 2017, CSC - Garage Nardini, Bassano del Grappa (Vicenza)
TaikokiaT Shindo
Di e con Masako Matsushita e Mugen Yahiro
Sound design di Federico Moschetti

 

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Floor Robert | Fireball

 

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Forse Robert Graves l’avrebbe definita una “Dea Bianca”, questo vulcanico folletto che l’altra sera volteggiava furioso al Garage Nardini, piombato qui per sfidarci a vincerlo, a domarlo, a contenerlo.

Volto intenso ed espressivo, ora imbronciato, ora giocoso, ora tetro e rabbioso, voce dall’estensione vocale flessuosa e sfrontata; bocca rosso fuoco e occhi dipinti di blu, novella Brunilde a ritmi afro e bit, sospesa tra il burlesque e il teatro danza, la performer Floor Robert spreme in rivoli colorati una rabbia originaria ed epica, enfatizzandola in sgargianti accessori di scena e costumi disegnati e realizzati da lei stessa, e lasciandola scorrere e ritornare energia della natura, respiro di bosco, vento impertinente che scompiglia l’ordine delle cose, animale selvatico e libero.

Donna totemica e guerriera, con una spada di gesti squarcia le catene e i lacci della costrizione, trasformando la tristezza in burla e la costrizione in rivolta, con alcune frasi coreografiche espunte dall’iconografia classica e moderna del femminile, dalle pose delle statue delle dee greche alla Giuditta trionfante su Oloferne.

È una danza sfrenata eppure controllata, prima rigida e meccanica, con un copro contrito e seppellito, e poi sempre più sciolta e morbida, abbandonata alla musica e allo spazio.

Controfigura indecisa e coloratissima, sulla scena si muove anche  un alter ego silenzioso di Floor Robert, che alla consolle /PC cura il “tappeto sonoro”  e che completa attivamente la scenografia indossando un folle costume, che qualcuno dal pubblico ha associato a quello del mozartiano personaggio di Papagheno.

Il compresso desiderio di sovvertire i codici e lo stato ingiusto delle cose che attraversa l’intera performance sboccia in una coreutica originale ed emozionale, dove la rabbia non profetizza alcun male, perché è una rabbia che è giustizia, esplosione fiorita che restituisce al femminile e alla natura diritti violati, senza risentimento.

Anna Trevisan

 

28 Gennaio 2017 - CSC Garage Nardini, Bassano del Grappa (Vicenza)
Fireball
Solo di e con Floor Robert


 

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