“Lattaia” (particolare) di Jan Vermeer (1658-60, Rijksmuseum di Amsterdam)
Tra il 22 e il 25 aprile si celebrano tre ricorrenze importanti: la Giornata internazionale della Terra, il Giorno del ricordo per il genocidio armeno, l’anniversario della Liberazione dell’Italia. In quest’anno strano, di corpi isolati dalla pandemia, manifestare insieme per proteggere il ricordo di quanto è stato e la speranza di quanto vorremmo che fosse, è più difficile. Nell’ascolto, forse, ancora una volta possiamo trovare un nuovo “non-luogo” di incontro. Questo è un testo che scrissi qualche anno fa, su commissione di due artisti francesi, Cecile Proust e Jacques Hoepffner, per la versione italiana del loro spettacolo Ethnoscape. All’epoca ero al nono mese di gravidanza, con un pancione enorme, fasciato sotto il blu elettrico di larghi pantaloni che usai per andare in scena e recitarlo davanti al pubblico. Insieme alla mia bambina, rannicchiata dentro di me, ad ascoltare.
Mia nonna raccontava sempre di quando, quel giorno del ’44, era andata a prendere il latte in viale.
Mia nonna mi raccontava che, per lo spavento, il secchio del latte le era caduto per terra.
Perché all’improvviso tutto l’orrore del mondo si era concentrato lì, davanti a lei, una ragazzina che era solo andata a prendere il latte.
Era mattino presto, saranno state le sette.
Ad ogni albero del viale era appeso un corpo.
Ogni corpo pendeva come un sacco, pesante, sporco, con attorcigliato intorno al collo un filo della luce.
C’era silenzio. Poi mia nonna ha urlato, ha urlato così forte che le è caduto per terra il secchio del latte.
Il latte è caduto tutto fuori, bianco, a fiotti, bagnando tutto intorno, bagnandole le scarpe, bagnandole il vestito.
Per lo spavento, quella mattina, mia nonna aveva versato tutto il latte per terra e la terra era diventata bianca.
Chissà se sono rimasti in silenzio quei trentuno corpi impiccati.
O se hanno urlato, prima di morire.
Il silenzio sui morti ha sempre un peso strano.
C’è il silenzio di chi resta, e quello di chi muore.
E poi, c’è il Silenzio pubblico, il silenzio politico che tace prepotentemente sui morti.
Chissà se sono rimasti in silenzio quei corpi di migranti, prima di affondare, giù, in fondo al Mare.
Chissà se sono rimasti in silenzio i soccorritori, vedendoli affondare.
Silenzio sui morti.
Per pietà e per paura.
Per terrore di finire come loro, impiccati, lasciati a seccare, a puzzare nell’aria ispida d’autunno o ad affondare nell’acqua del mare.
Chissà quanti secchi di latte sono stati versati per terra dalle donne il mattino, dopo la strage di Srebrenica.
Chissà quanti secchi di latte sono stati lasciati cadere per terra, all’improvviso, in Uganda, in Nigeria in Congo, nella fuga disperata delle donne dai guerriglieri.
Chissà se loro, i torturatori, i persecutori, gli assassini sono rimasti in silenzio dopo aver ucciso.
Chissà se hanno pianto, quando sono tornati a casa.
Anna Trevisan
Il testo è stato scritto e rappresentato per lo spettacolo Ethnoscape di Cécile Proust e Jacques Hoepffner (Bassano del Grappa, Palazzo Bonaguro, luglio 2015) e si ispira ai fatti del 26 settembre 1944 occorsi a Bassano del Grappa lungo quello che oggi si chiama Viale dei Martiri.
La presentazione in conferenza stampa dei programmi di Danza Musica e Teatro della Biennale di Venezia 2021
14 aprile 2021 | C’è qualcosa di nuovo e diverso in questa conferenza stampa senza spettatori, condotta in maniera congiunta dai tre direttori dei settori Danza Musica e Teatro della Biennale di Venezia, in diretta streaming dalla sede fisica di Ca’ Giustinian, a Venezia. È scomparso il lato frizzante e superfluo della comunicazione. Sono sparite quell’aura mondana e radical chic dell’attesa tra i presenti in sala, quel vociare prima dell’inizio, i bisbigli e i convenevoli tra i convitati, le frasi stucchevoli. È il regno dell’assenza, della sottrazione, dell’essenziale. Le parole sono ponderate e chiare, scelte con cura, con parsimonia, con attenzione. È il momento dell’ascolto per tutti noi, pubblico invisibile e virtuale, novelli acusmatici senza diritto di replica.
Ad inaugurare la conferenza stampa il presidente della Biennale di Venezia Roberto Cicutto, che introduce rapidamente i direttori di settore. I primi a prendere la parola sono Stefano Ricci e Gianni Forte, direttori della Biennale Teatro (Blue, 2-11 luglio 2021) seguiti dal direttore del settore Danza Wayne McGregor (First Sense, 23 luglio-1 agosto 2021) e dalla direttrice del settore Musica Lucia Ronchetti (Choruses, 17-26 settembre 2021). Qui di seguito riportiamo la prima parte della conferenza stampa.
Blu | Il colore dell’inatteso | Stefano Ricci
“Il cielo è blu perché tu vuoi conoscere perché il cielo è blu”. Apre così Stefano Ricci, citando con trattenuta emozione una frase tratta da I vagabondi del Dharma, di Jack Kerouac. E nel blu Ricci cattura tutto il disorientante lungo presente che tutti noi stiamo forzosamente vivendo: i dodici mesi di blocco totale, di sospensione del quotidiano, la chiusura dei teatri. Blu secondo Ricci è il colore dell’inatteso, che ci mette di fronte due strade: accettarlo passivamente oppure “trasformarlo in una sfida, sviluppando la propria intraprendenza […] per reagire e riprendere ad edificare quella che è l’architettura di un teatro possibile”.
“Il nostro percorso disegnato per questi quattro anni alla direzione del settore teatro della Biennale di Venezia” – prosegue Ricci – è improntato su una scelta di colori. Colori. Perché il pigmento è un qualcosa che sfugge ad ogni possibilità di categorizzazione […] come il teatro [che], in qualche modo, è qualcosa che non ha bisogno di perimetri. Blu come la volta celeste che ci unisce tutti. “Blu sarà il colore di quest’anno, sarà il disegno che proveremo ad esprimere per raccontare questa volontà di ripresa e di rinascita ma anche per raccontare il blu di domani, con Biennale College […] del quale mai come quest’anno abbiamo bisogno per dare fiducia ai giovani, per dar loro la possibilità di disegnare nuove linee”. Nuove linee che verranno tracciate attraverso le attività di scouting: il bando di regia; il bando autori e , novità di quest’anno, il bando per site-specific.
“Perché proprio in un periodo i cui l’edificio del teatro è diventato un luogo che provoca timore, abbiamo bisogno di riportare il teatro alla gente, nei campielli, nelle piazze e far ascoltare comprendere alle persone che il teatro non è solo intrattenimento ma anche un momento di condivisione e di presa di coscienza. Il teatro ha bisogno del pubblico ma allo stesso modo il pubblico, il nostro Paese ha bisogno del teatro per continuare a credere che questo rito sia necessario” – conclude Ricci prima di passare la parola a Gianni Forte.
Blu | Una magnetica melodia universale | Gianni Forte
“Questa nostra edizione del festival per i motivi che tutti noi conosciamo sarà una sorta di concentrato vitaminico, energizzante, nutriente soprattutto per l’anima, ma anche per la vista, per non smentire quella fama di guastatori non allineati che da sempre ci precede. Un concentrato composto da undici spettacoli, undici pepite che come cercatori d’oro abbiamo cercato […]” – esordisce Forte.
“Tutti questi spettacoli insieme ai tre bandi college, a forum ed incontri con alcuni degli artisti presenti al festival, due tavole rotonde, otto masterclass coadiuvati da ensemble di studiosi, giornalisti, maître d’eccellenza contribuiranno a creare una sorta di magnetica melodia universale che ci accompagnerà per scoprire i lati oscuri, la crudezza ma anche la dolcezza di quest’esistenza”.
“Ciascuno di questi spettacoli […] contribuirà a prenderci per mano per farci attraversare questa selva oscura di dantesca memoria e per farci avere così una sorta di interpretazione interpretare l’oggi, il presente. Ciascuno spettacolo avrà un suo sguardo, un suo flash che permetterà di impressionare la lastra del tempo che stiamo vivendo e perché no, profeticamente, magari anche di quello che verrà. E tutti insieme, come prendendoci per mano, attraverseremo questo periodo buio” – prosegue Forte che sceglie di concludere il suo intervento con un breve ma accorato appello alle istituzioni italiane: “Basta. Per favore, fateci ritornare a casa, nei nostri teatri, nei nostri spazi di cultura”.
Poi, con altrettanta compostezza, elenca in ordine cronologico i nomi degli spettacoli e degli artisti che animeranno questa edizione del festival: We are Leaving di Krzysztof Warlikowski, Leone d’Oro alla carriera; Uno sguardo estraneo (ovvero come la felicità è diventata una pretesa assurda) con la regia di Paolo Costantini, vincitore del bando registi under 30, tratto da un testo di Herta Mueller; Nel lago del cor di Danio Manfredini; OHT, Un teatro è un teatro è un teatro è un teatro; In exitu di Roberto Latini tratto da un testo di Giovanni Testori; Hard to be a god di Kornél Mundruczó; L’altro Stato di Lenz Fondazione, tratto da un testo di Calderon de La Barca; Qui a tue mon per di Thomas Ostermeier; The Mountain di Agrupación Señor Serrano; The Book of Traps & Lessons di Kae Tempest; Sunday, la coreografa ungherese Adrienn Hód.
Noi aspettiamo con tenace ardore di ascoltare dal vivo Kae Tempest, insignita/o del Leone d’argento 2021 e presentata/o da Forte come “una delle voci più emblematiche più innovative più sincere della spoken-poetry degli ultimi anni […]” e come un artista che “è riuscita/o a mescolare ritmi e rime dal sapore shakespeariano con l’hip hop, che è riuscita/o ad entrare nei nostri cuori, facendoci riflettere una dolorosa e personale intimità”.
“Il suono (cioè il silenzio e le sue diverse modulazioni, così come i rumori che ne spezzano la trama) non si rivolge solo all’orecchio; impregna il corpo intero. […] Così il suono crea il suo ambiente, lo organizza, gli dà forma. Ne cambia la struttura dinamica molecolare imponendo a quest’ultima una danza su variazioni sonore. È evidente che l’aria non è la stessa se rimane silenziosa o se si anima per effetto delle vibrazioni acustiche”.
Alfred Tomatis, Ascoltare l’universo. Dal Big Bang a Mozart
Il buio ci attende, dietro alla porta chiusa di una delle stanze del Centro Universitario. Nell’androne dove aspettiamo di entrare, c’è via vai continuo di biciclette, libri, studenti, risate e le aule studio brillano di luci al neon. Il buio, questo sconosciuto, che compare quando caliamo le palpebre e ci addormentiamo, che ci accompagna nel sonno, che ci conduce nel sogno. Il buio: apertura segreta su mondi possibili, nostro amato e temuto sodale.
Quando lo spettacolo sta per avere inizio, al pubblico viene chiesto di mettersi in fila indiana e di lasciarsi condurre nel buio della sala, guidati dal nostro ignoto vicino. Tra ilarità e disagio, ci infiliamo nel buco nero della stanza, dove progressivamente ci abituiamo al buio.
Non conosciamo lo spazio dove ci viene chiesto di sederci. Ascoltiamo docili le raccomandazioni snocciolate dalla voce aperta e chiara della poetessa e scrittrice non vedente Marta Telatin. Il suono delle sue parole abita il buio con naturalezza e si muove ondivago nello spazio raggiungendoci come una carezza.
Scoppia un silenzio innaturale zuppo di attesa e di agitazione. Sono probabilmente in pochi ad essere abituati a sostare nel buio in stato di veglia e per un tempo prolungato. Lo spettacolo, ci avvisano, durerà quaranta minuti. Una persona dal pubblico si alza nervosa e abbandona la sala. La paura del buio lo insegue e se ne esce dietro di lui, come un’ombra. Noi rimaniamo seduti, completamente liberi e disponibili a partire finalmente per questo eccentrico viaggio.
Come una danza arriva il suono di due voci femminili che non conosco. Altre istruzioni e poi il tintinnio ovattato di un diapason accorda i nostri corpi ai loro, le loro voci alle nostre orecchie. Siamo pronti per ascoltare.
Incredibile sentir arrivare come un’onda il canto a due di queste strepitose voci femminili. Sono voci argentine, fresche, che zampillano e sgorgano come acqua di fonte. Ci irrorano gli occhi, lasciandoli stupefatti. Le vediamo ballare, gonfiare le lunghe sottane all’aria aperta e piena di sole, stendere i panni colorati ad asciugare la vento, danzare in mezzo all’erba del prato, rincorrersi e giocare. Le ascoltiamo raccontare d’amori dolenti e di ninne nanne antiche, in lingue e dialetti sconosciuti, che riverberano nella stanza come pepite d’oro, come gemme preziose incastonate in un buio che improvvisamente dilegua per svaporare in un vuoto senza paura. Percepiamo i corpi delle due cantanti, che respirano e si muovono nello spazio sprigionando il loro canto.
La voce adamantina di Marta Telatin dilata il buio, lo libera, lo scuce con le sue parole limpide, senza eco. Parole poetiche, inanellate senza orpelli, regalate all’universo senza scopo di lucro, regalate al mondo intero, radianti e rapide, forti e chiare, libere e felici. Sono parole di luce, di gioia, ambrate, perlacee, smeraldine. Senza magniloquenza, essenziali e colme di esperita sapienza. Nude ci ancorano a terra e ci lanciano in cielo. Sono parole che conosciamo, perché le abbiamo lette nei suoi libri. Ma, qui al buio, ne sentiamo in modo nuovo il significato, ne percepiamo la musica e la melodia senza spazio e senza tempo: Forse per la prima volta, le ascoltiamo con l’intensità e la cura che meritano, lasciandole sorvolare lievi le nostre abitudini estetiche, lasciandole entrare e fare breccia tra i nostri pregiudizi scolastici e le nostre piccinerie accademiche, lasciandole seminare il nuovo, che ci destabilizza con vertiginosa leggerezza, sollevandoci in alto, in un cosmico volo infinito.
Le parole di Marta, pronunciate con una morbida e tagliente naturalezza, diventano oasi e cuscini dove appoggiarsi, immaginifici ponti da attraversare, occhiali per vedere, finalmente, lo sconfinato universo.
Scopriamo che sperimentare il buio in stato di veglia è come sperimentare il vuoto, vederlo, abitarlo. Scopriamo che il buio è il vuoto. Un vuoto orientale, non sottrattivo, non spaventoso. Una zona di rarefazione dell’ego, rigenerante e rigenerata in nuove dimensioni e forme. Scopriamo il potere attivante del buio, il suo saper fare spazio per farci entrare. Scopriamo nel buio un esaltatore di sapidità dell’udito, della vista e dell’immaginazione. Scopriamo che il suono ha un potere rigenerante e che converge sorprendentemente con le qualità del buio, con il suo essere assenza di luce eppure sua manifestazione.
Grazie alle voci meravigliose di Elida Bellon e Giulia Prete, che hanno tessuto racconti in canto, accompagnandoci ai confini del tempo e alla voce chiara, potente e necessaria di Marta Telatin, che con la sua poesia ci consegna la chiave segreta per abitare insieme a lei il buio, mostrandoci gli sconfinati confini dell’universo.
Anna Trevisan
Domenica 16 Febbraio 2010
Ore 18.00, Centro Universitario di via Zabarella, Padova
Chiaro di voci. Canti e parole al buioConcerto di canti di tradizione popolare del mondo
A cura di Duo D’AltroCanto
Letture poetiche di e con Marta Telatin
“Siamo fatti della stessa materia di cui s’intessono i sogni, e i sogni sollevano le palpebre come i piccoli bambini sotto i ciliegi, dalla cui corona il suo cammino oro pallido la luna piena inizia attraverso la grande notte […] E tre cose sono una: un uomo, un oggetto, un sogno”. (Hugo von Hofmannsthal, Terzine sulla caducità, III.[1])
“Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo logos”. (Eraclito, Frammento 45)
“L’angoscia – Die Angst – ha un’innegabile connessione con l’attesa – Erwartung –: è angoscia prima di e dinanzi a qualche cosa – vor etwas –. Possiede un carattere di indeterminatezza – Unbestimmtheit – e di mancanza d’oggetto – Objektlosigkeit –; nel parlare comune, quando essa ha trovato un oggetto – wenn sie ein Objekt gefunden hat –, le si cambia nome, sostituendolo con quello di paura – Furcht” (Sigmund Freud, Opere)
C’è qualcosa in Chiara Elisa Rossini che lascia stupefatti. Non è solo il suo bel volto, dai tratti forti e marcati. Non è solo la sua potente fisicità, la sua qualità di presenza sulla scena; non è solo la sua voce, capace di timbri scuri e chiarissimi, la sua espressività, la sua capacità interpretativa così versatile e intensa, così bruciante. Ciò che sorprende di lei è che tutte queste doti coesistano simultaneamente in una sola persona. In lei il maschile ed il femminile sembrano aver fatto pace per dar luogo ad un intero, screziato di colori, di tonalità, di nuances che ci prendono per mano e ci accompagnano in un lungo viaggio: quello dentro a noi stessi, attraverso una partitura drammaturgica intelligente, variegata e piena di suggestioni visive che richiamano i grandi classici dell’arte contemporanea. Il suo “Angst vor der Angst” è molto più di un monologo: è uno spettacolo affollato di personaggi, di citazioni colte e popolari, di spunti per leggere la contemporaneità e, soprattutto, un invito ad attraversare la paura e a ritornare nel bosco del “c’era una volta”.
I capelli sciolti e ricci, ribelli come quelli di una Gòrgone, un mantello nero buttato sulle spalle, Chiara Elisa Rossini aspetta in piedi l’ingresso del pubblico. Ci guarda entrare e prendere posto, mentre in mano tiene un giocattolo a molla: è una scatola colorata, con un carillon azionato manovella. Quel carillon ci riporta al suono dell’infanzia e, nello stesso tempo, alla paura panica che da bambini avevamo che proprio da quella magica, sinistra scatola potesse irrompere all’improvviso uno sguaiato pagliaccio. Quella scatola custodita tra le mani dall’attrice si trasforma presto in un oggetto perturbante, (re)suscitando un’atavica paura dell’inanimato insieme al ricordo del racconto “L’uomo della sabbia” di E.T.A. Hofmann.
“C’è una fiaba in ogni cosa: nel legno, nel tavolino, nel bicchiere, nella rosa … Ecco perché caro spettatore sei stato invitato … ma … è un discorso frammentato”- ci avvisa l’attrice parafrasando la rimata filastrocca di Gianni Rodari. Il buio cala nella sala, illuminato da due indizi: questo spettacolo è una fiaba ed è costruito per frammenti. Si riaccendono le luci e il personaggio fiabesco dell’apertura, un po’ strega, un po’ maga, è svaporato. Al suo posto, una dea post-rock alla Laurie Anderson che al microfono declama in inglese un elenco di parole, mentre dietro di lei scorre un video proiettato sulla parete. “We have no fears…. We have….science, medicine, antiobiotics, … knowledge…”-dice, con una voce strepitosa, capace di inghiottire la musica e sputarla fuori in prosa. Poi, con un nuovo repentino cambio di personaggio, ci parla con timbro chiaro e bianco come il latte: “Il desiderio ci induce spesso ad incontrare ciò che temiamo”. E la dea post-rock si trasforma nell’impensato: una creatura della natura, con indosso una pelliccia e delle lunghe corna. Dietro di lei si accende sul video un bosco di neve e il suono della tormenta. L’attrice scompare e diventa legno, vento, canto, lasciandoci assaggiare il gusto naturale e vivo dell’inverno, il suo lucore, il movimento febbrile degli animali che cercano di sopravvivere al gelo. Il costume-totem indossato da Chiara ricorda Joseph Beuys e le sue performance ecologiste.
Ma dei rumorosi spari di vernice rossa spezzano il bianco del fondale e, con esso, anche le potenti suggestioni sciamaniche di poco prima. Il rosso sangue improvvisamente acceso sul telo bianco fa pensare al colore della guerra e delle armi, e allo spazialismo di Lucio Fontana derubato della pace.
Il mondo va troppo veloce perché Chiara Elisa Rossini possa fermarsi e con camaleontica capacità attorale si trasforma ancora per raccontarci una celebre fiaba di Grimm: “Il pescatore e la moglie”. Seduta su una sedia, afferra una mela rossa. Inizia a sbucciarla e a raccontare. Addenta la mela , la mastica, e intanto parla e snocciola la storia di un pescatore che incontra un pesce parlante e gli risparmia la vita. E mentre ci racconta questa fiaba- anatema sull’avidità e sull’ingordigia umana- vediamo scorrere dietro di lei le immagini video di una bocca che divora una mela, che la ingurgita smodatamente, che la ingoia senza più nemmeno sentirne il sapore. Quella mela divorata diventa immediatamente il simbolo epifanico della Terra, consumata senza misura dagli essere umani. L’opulenza, il disgusto, la nausea, la noia, la voracità, la prepotenza, l’arroganza, la violenza dell’essere umano traboccano da quel frutto proiettato sul fondale e la fiaba di Grimm riceve nuova luce e nuovo significato dal cortocircuito con il contemporaneo.
Alzi la mano chi non ha mai avuto paura. Paura della notte, paura degli omosessuali, paura del contatto, paura dei ricordi, paura degli sconosciuti… Una paura per tutte: la xenofobia, la paura dello straniero… La voce di Chiara pronuncia concitata una sfilza di cose, fatti, sentimenti, pensieri che fanno paura. E poi ci racconta un aneddoto, costringendo la nostra immaginazione a pensarci in volo su un aereo, seduti accanto ad una coppia di musulmani, mentre le turbolenze lo scuotono e lo fanno tremare …
Volta la carta e racconta altre fiabe, altre storie, dai fratelli Grimm e dalla tradizione di fiabe popolari italiane. Dagli altoparlanti sentiamo uscire le voci di Salvini e di Trump, che risuonano come le voci di un orco, in mezzo al bosco. Il favoloso e il reale di nuovo si mescolano insieme in modo esemplare, esortandoci a diventare eroi coraggiosi, a vincere i mostri, le streghe, i malefici di oggi. Ma compare un oggetto in scena, la maschera antigas, che gela il sangue nelle vene, perché non è naturale. Non è naturale nemmeno la paura che suscita. In un nuovo dialogo tra la scena reale e il video proiettato alle spalle, la maschera antigas evoca la paura dell’annientamento totale, che non risparmia nemmeno i bambini. Sogno, incubo, profezia, ricordo si uniscono in una raggelante visione, che culmina nella bara trasparente portata a braccia da Chiara. Con quella bara, in scena entra la rappresentazione materiale della nostra paura più profonda: quella della morte. La fiaba di “Giovannin senza paura” si intreccia ai frammenti del contemporaneo, alle sue guerre, ai suoi morti. “Hai mai trascorso del tempo vicino ad un corpo che non respira più?”- ci chiede l’attrice, continuando il suo serrato colloquio con gli oggetti scenici.
Un diavolo rosso emerge dal pennello che l’attrice impugna per dipingere il telo bianco. Maschera apotropaica, rituale che trasfigura la paura in porta da attraversare. Il richiamo potente, quasi insistito alla natura congeda lo spettatore, lasciandolo spiazzato per la schietta genuinità del messaggio finale. Una semplicità conclusiva non facile e terribilmente vulnerabile di fronte allo sguardo cannibale del consumatore-spettatore.
Dedicato a tutti quelli che vogliono attraversare il bosco, vincere gli orchi e (ri)trovare il tesoro sepolto nel ventre di Madre Terra.
Anna Trevisan
OPERAPRIMA FESTIVAL
12 settembre 2019, Teatro Studio, Rovigo
Welcome Project /Angst Vor Der Angst
Di e con: Chiara Elisa Rossini
Assistenza ed elaborazione video: Aurora Kellermann
Musiche originali: Munsha
Assistenza tecnica: Silvia Massicci
Riprese video: Marina Carluccio
Coproduzione: Teatro del Lemming
Purgatorio, Babilonia Teatri. Foto di Eleonora Cavallo
Il Paradiso può attendere. In fila, allineati come soldati, come combattenti, con un sacco da box sopra la testa. I corpi seminudi degli attori si danno in pasto allo sguardo del pubblico e raccontano da soli, anche restando fermi in silenzio, intere gesta, che sanno di clangore di armi e di caduta, di resistenza e di lotta. Sono corpi-carcere, umiliati e offesi dal desiderio di normalità. Sono corpi di persone, pieni di emozioni e di pensieri. E quest’interiorità traboccante e piena sgorga a catinelle, con una levità magistrale e acuta, che accompagna il pubblico in scene di grande controllo formale e di riuscito effetto drammatico: intervalli colorati di risate, di commozione, di tenerezza.
È un canto, in fondo, questo spettacolo. Un canto pieno di amore e di dolcezza, pieno di ironia e di dolore. Un canto dove la parola di Dante è illustrata e mai proferita, e il senso profondo e ultimo del purgatorio viene scandagliato e sgranato con disarmante semplicità, attraverso scene essenziali, quasi minimali, commentate da un uso sapiente della luce e da magistrali controluce, sillabate da canzoni pop e rock. Come i pittori medioevali facevano nelle Chiese per spiegare ai poveri l’Abc della Bibbia, così Babilonia Teatri con questo spettacolo dipinge grandi affreschi, per spiegare al pubblico l’alfabeto del dolore e della compassione.
Le parole in libertà degli attori si intrecciano tra loro, con increspature di comicità e di tristezza, in dialoghi dal tessuto poetico e assorto: “Io vorrei essere un meteorite e far tremare la terra”; “Io vorrei prendere tutti gli sputi al volo”; “Io vorrei un piccolo scheletro di ricambio”; “Io vorrei essere Rocky”.
Un punto interrogativo si accende insieme alle luci rosse di scena che infiammano in controluce il palco. Le loro silhouette in movimento mimano i pugni spettacolari del cinema hollywoodiano e ci servono il dubbio che forse, i veri eroi non sono quelli di cellulosa ma quelli sul palco.
Tra le scene più toccanti dello spettacolo c’è quella in cui una delle attrici cuce gli occhi agli altri, con un filo immaginario e invisibile, e con una cura e un’attenzione quasi amorosa. E così, questa scena cruda e buia si trasforma in un bagliore di tenerezza e di grazia, come se quel gesto puntuale e crudele fosse in fondo un modo per difendere e difendersi dalla sofferenza inflitta dallo sguardo dell’altro.
Purgatorio | Centorizzonti 2017, 11 febbraio, Teatro Duse di Asolo
regia di Enrico Castellani e Valeria Raimondi - Babilonia Teatri
con Enrico Castellani e Daniele Balocchi, Maria Balzarelli, Chiara Bersani,
Carlo Trolli, Paolo Terenziani
produzione Babilonia Teatri
un progetto di Babilonia Teatri e ZeroFavole
collaborazione artistica Stefano Masotti, Sara Brambati
con il sostegno della Fondazione I Teatri di Reggio Emilia
con il contributo di Fondazione Alta Mane Italia (AMI) e Fondazione Manodori
produttore esecutivo La Piccionaia S.C.S.
organizzazione Alice Castellani
scene Babilonia Teatri
luci e audio Babilonia Teatri / Luca Scotton
costumi Franca Piccoli
foto Eleonora Cavallo immagine locandina Andrea Avezzù
residenza artistica La Corte Ospitale di Rubiera,La Biennale Teatro di Venezia
produzione 2016
Patricia Zanco in “Macbeth?”. Photo by Raffaella Vismara
“Macbeth? Study for wo.men”
Che roba è?
Non è il Macbeth di Carmelo Bene. Non è il Macbteh di Testori. È il Macbeth di Patricia Zanco e di Vitaliano Trevisan. “Che roba è?” chiede e si chiede Macbeth/Zanco appena entrato/a in scena. Tra gli spettatori stupiti di trovarsi un Macbeth che è donna, o forse no? Un ticchettio digitale con luci accese in platea prepara l’ingresso delle attrici sulla scena. “Brutto è bello e bello è brutto” sentenzia tra il serio e il faceto Francesca Botti alias strega, soldato, messaggero e molto altro ancora, incarnando ogni personaggio shakespearianio in modo pressoché perfetto.
“Sei un uomo?”
Il cranio di Macbeth appoggiato sulla bocca del proscenio è illuminato di taglio da una luce che piove come quella che illumina, indimenticabile, il cranio di Marlon Brando in Apocalypse Now. Ma il personaggio di Macbeth non condivide quasi nulla con Kurtz, se non la superficie di clamorose azioni sanguinarie. “Sei un uomo?” –chiede Lady Macbeth a Macbeth. O forse Macbeth è “una femminuccia” – insinua lo stesso Macbeth contro se stesso. È un dubbio quasi amletico quello che lo divora, e lo consegna alla lucidità crudele ed efferata della bellissima (e brava) consorte interpretata da Beatrice Niero.
“Bang bang. My baby shot me down”
Per Carmelo Bene “Macbeth è l’eroe annientato dal suo stesso progetto”. Per Zanco – Fatebenesorelle Macbeth è l’antieroe, annientato dal e al femminile. “Bang bang. My baby shot me down” canta da dietro le quinte una voce di donna, mentre si apre il sipario su un allestimento spoglio e minimale, dove campeggia al centro la proiezione video in diretta delle attrici sulla scena, come specchio di specchio.
Macbeth quasi trascolora e impallidisce dentro al corpo giunonico di donna della Zanco che, nonostante la voce corposa e robusta, trema di fronte alla smodata e arrogante bellezza di Lady Macbeth e ai lazzi puntuti e affilati che, come un ipertesto continuo, la terza attrice – strega, soldato-, dottore e spiritello- sciorina a commento dell’azione scenica.
Il perturbante e la croce identitaria
Il perturbante affiora prepotente attraverso la fisicità ambigua e mai “risoluta” della Zanco, consegnandoci un Macbeth destrutturato, fragile, disorientato, che si interroga e ci interroga sul tema della violenza e della crudeltà in maniera nuova, non ovvia, spiazzante. Il fatto che siano tre attrici donne a dividersi sulla scena il punto interrogativo su Macbeth racconta di una sofferta e dolorosa croce identitaria, in bilico tra rifiuto del corpo e rifiuto del genere, tra ricerca di accettazione e desiderio di conformismo. Macbeth è un uomo “effeminato”, non solo perché interpretato da una donna ma anche perché nel clichè machista un vero uomo non ha dubbi e rimpianti, mai. Lady Macbeth è una donna virago, interpretata da una donna molto femminile ma esacerbata da un personaggio acutamente maschile, votato a logiche di potere e di dominio. La terza attrice è la madre-strega, la nutrice di spettri, la risolutrice di dubbi, l’esaminatrice clinica di psicosi e malattie. La donna dunque come incubatore di tutto il male e di tutto il bene dissolti insieme.
Chi è Macbeth?
Tra le scene visivamente più riuscite di questa storia incompiuta di crudeltà perfetta c’è senz’altro quella iniziale, in cui Lady Macbeth si sventaglia a testa in giù la sottana, sollevando capelli e vesti in un turbinio eccitato e ispirato: “Toglietemi il sesso e riempitemi di fredda crudeltà” –dice, raggelando sadicamente ogni traccia di Eros. E forse è Lady Macbeth la vera protagonista del cammino omicida di Macbeth. Non solo drammaturgicamente ma anche sulla scena. “E vorresti essere un uomo?” chiede beffarda e collerica ad un Macbeth spaventato, che non sa replicare se non con indosso un’armatura, che ciclicamente toglie e mette, mette e toglie, come scafandro contro il rimorso, contro la paura, contro il nemico invisibile che arriva dal bosco di Birnan.
Diavoli, rimorsi e umanità
Sguaiatamente brava la strega-spiritello-soldato-messaggero- psicopompo di Francesca Botti, che con un cono di carta bianco usato ora come cappello, ora come megafono, ora come amplificatore acustico inchioda lo spettatore al rimbombo furioso della morte che bussa alla porta.
Un icastico Macbeth/Zanco seduto molle sul trono con i piedi a ciondoloni che non toccano terra, e moltiplicato dalla ripresa video, racconta di una vittoria sanguinaria, sconfitta da quello che al maschile si chiama “rimorso” e al femminile “umanità”. È in effetti proprio l’estrema “umanità di Macbeth/Zanco a corrodere dall’interno il mito della violenza vittoriosa, incrinando l’ambizione al potere assoluto.
Il dubbio di Macbeth: tra identità di genere e paura della castrazione
L’indecisione di Macbeth è un amletico refrain che riguarda anche l’identità di genere: “La mia testa è piena di scorpioni” urla Macbeth mentre Lady Macbeth lo apostrofa come un “evirato dalla paura”. “Se mi vedrai tremare chiamami pure femminuccia” – fa dire a Macbeth Vitaliano Trevisan, sottolineando un conflitto di genere che diventa anche etico e morale. “Sono di nuovo un uomo” si dice Macbeth/Zanco tornato in sé e scappato dai proprio dubbi.
Le parole degli altri
“Lasciamoci senza meraviglia come sparse nuvole estive” si dicono i consorti mentre uno strepitoso duetto di morte costeggia con una danza macabra i bordi della furia omicida che sta per compiersi.
L’ironia di Shakespeare / Trevisan filtra a fiotti nei camei interpretati da Francesca Botti e si diluisce in pena interiore nelle parole di Macbeth/Zanco: “Sick at heart” –dice, “malato al cuore”, traduce “perchè a volte le traduzioni letterali sono le migliori”. E poi aggiunge: “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, infilando i Soldati di Ungaretti nella battaglia per il trono di Scozia.
Il corpo è carcere, la morte è liberazione
Una livida Lady Macbeth si muove stanca nella scena degli incubi di sangue, quasi rimpicciolita dalle emozioni, mentre Macbeth, al contrario, sembra rinvigorito dal cupo destino di morte che incombe su di lui e che affronta infine con indosso l’armatura, “come un orso che affronta la muta dei cani”. Una morte che sembra attesa da Macbeth /Zanco più come una liberazione da un corpo-carcere che come una fine immeritata. Ma della fine di Macbeth /Zanco non sapremo mai la verità– come chiude Trevisan – perché “non esiste verità nell’atto che possa dirci la verità sul soggetto”.
Anna Trevisan
Teatro Ridotto di Vicenza, 20 gennaio 2107
Macbeth? Study for wo.men
regia Patricia Zanco ; traduzione e adattamento Vitaliano Trevisan; drammaturgia attore Daniela Mattiuzzi ; con Patricia Zanco Francesca Botti, Beatrice Niero ; sculture Alberto Salvetti ; costumi Rossit Zaccaria Zanco ; collaborazione Mauro Zocchetta, Corrado Ceron, Valentina Brusaferro, Cosimo Guasina, Alessandra Fusciardi; produzione fatebenesorelle teatro e La Piccionaia
Chi è Edipo? Un reietto, un bandito, un irregolare che arriva clandestinamente a Colono, ormai ridotto a barbone. Un vecchio sporco e randagio, che spinge un carrello della spesa stracolmo di puzzolenti stracci. La figlia Antigone è una straniera in jeans, che parla in italiano con uno spiccato accento russo e che denuncia con angoscia la propria disperazione.
In un’atmosfera post-apocalittica, scarnificata, che evoca inferi suburbi metropolitani, il Coro è un gruppo di monatti post-moderni con il volto mascherato, e i soldati di Creonte sono mercenari che indossano maschere antigas.
Borders
La desolazione, l’abiezione e la miseria sono le ascisse e le ordinate di questo spettacolo sgrammaticato e in rivolta, che dipinge su Creonte la maschera cinematografica di Joker, e fa di Teseo un pingue e ambiguo politicante, affaccendato a negoziare con Edipo i “vantaggi” che la città di Atene potrebbe ricavarne ad ospitarlo. Nessuna tragedia sopravvive al cinismo dell’interesse. Nessun sentimento. Le emozioni sono nascoste sotto la crosta di cartone che Edipo e Antigone usano come giaciglio. L’unica vena emotiva manifesta è quella della rabbia mista al disprezzo. La mistificazione sistematica delle parole, l’impoverimento radicale del loro senso, lo svuotamento delle intenzioni restituiscono una “Terra desolata”, una no-men’s land contemporanea. Il Bosco sacro sofocleo diventa spoglio confine da valicare, confine da cui scappare, confine su cui sostare.
Il congedo della Giustizia dalla Parola
La pianta d’ulivo, il croco e i narcisi della “candida Colono” vengono sostituiti da lattine di birra, tabacco da rollare, bicchieri large-size di MCDonald usati da Edipo per chiedere l’elemosina. La scollatura tra la Parola e la Giustizia, nell’interpretazione che ne dà Konchalovsky, sembra profonda e ormai insanabile. Creonte parla con la maschera dell’eloquenza più pericolosa, perché orientata a velare con la cortesia umettata di affettazione la minaccia di ritorsione. Creonte, infatti, è “capace [….] di trarre da ogni argomento un’astuta parvenza di onestà”, e fa ad Edipo una proposta “buona a parole ma cattiva in realtà”. Ma anche le parole di Teseo, che nel testo di Sofocle sembrano ancora potere e voler proteggere il Sacro, in Konchalovsky diventano pura funzione, trattativa commerciale, mero e vantaggioso scambio.
No-Men’s Land
Una delle scene forse più forti e teatralmente riuscite dello spettacolo è quella in cui Antigone viene rapita dai soldati di Creonte. Una luce stroboscopica congela frammenti dell’azione, che assomiglia più all’irruzione contemporanea di una squadraccia di Alba dorata in un campo profughi o alle scene di scontri con la polizia nella Grecia di oggi che a quella di opliti dell’Antichità. Il ritmo delle percussioni, la luce acida e fredda, la violenza del rapimento non lasciano nessuno scampo al disincanto, armato dalla Tecnica.
Cecità
Perfino la cecità di Edipo non ha nulla di sacro, ma è anonima e svilita a handicap da nascondere sotto comuni occhiali scuri. Antigone restituita al padre non è un’illibata eroina tragica, ma una donna che ha subito l’insulto dell’aggressione e della violenza. La tragedia è annientata dall’ambiguità delle ragioni, e così la chiarezza dell’antitesi scompare. Non siamo più sicuri che i soldati di Teseo abbiano effettivamente protetto la bella Antigone senza approfittarne loro per primi. Non siamo più sicuri che Teseo custodirà il segreto della morte di Edipo, osservando la consegna del silenzio. Infatti Konchalovsky sceglie di non rappresentare il dialogo tra Teseo ed Edipo, forse il più enigmatico del testo, ed espunge anche le parole del Nunzio, lasciando invece ad Antigone la sintesi. Non sappiamo più, quindi, se credere oppure dubitare dello stesso Teseo. Il dubbio ci fa trasformare la domanda chiave “Come è morto Edipo?” in “Chi ha ucciso Edipo”?
Il Corpo di Edipo
Il colpo di tosse che scuote l’ottima Julia Vysotskaya/Antigone quando ancora indossa i panni della tradizione, sembra scuotere anche ogni residuo del Sacro, senza il quale nessuna tragedia è possibile.
“Vengo a darti in dono il mio misero corpo, non certo apprezzabile a vedersi, ma i suoi vantaggi valgono più di un bell’aspetto” dice Edipo a Teseo. In effetti, il corpo e l’umanità di Edipo, corrotti dalla vecchiaia e dalla prostrazione, ci sono restituiti tutti. In scena non c’è l’Aura. In scena non c’è l’alone misterioso e misterico che Sofocle ci lasciava intuire ma solo un uomo in carne e ossa che, mostrandoci la propria ributtante povertà, ha spogliato la tragedia del Mito, lasciandole indosso la verità cruda del contemporaneo, dove nessuno più sa vedere e sentire, troppo incapace com’è di distinguere la differenza tra povertà e miseria.
Anna Trevisan
Teatro Olimpico di Vicenza, 17-18 Ottobre 2014
Edipo a Colono. Il Re Randagio
da Sofocle; adattamento e regia Andrei Konchalovsky, traduzione di Andrea Rodighiero; interpreti e personaggi Antigone/Julia Vysotskaya; Edipo/Federico Vanni; Polinice/Antoni Gargiulo; Creonte/Giuseppe Bisogno; Teseo/Simone Toffanin; Coro/Ramune Chodorkaite; Andrei Abeltsev, Ivan Tovmasyan, Roman Andreikin, Antonio Gargiulo, Giuseppe Bisogno; musica Serhei Prokofiev; pianista Elena Fedotova; percussionista Luca Nardon
“J’ai rien a dire avant le spectacle, parce que vous le verrez. J’ai rien a dire après le spectacle, parce que vous l’avez déjà vu” dice Andrei Konchalovsky dopo aver chiesto in italiano ai presenti in quale lingua preferiscono che si esprima: “Francese, inglese, russo, cinese?”. Alla conferenza stampa per presentare il debutto all’Olimpico del suo Edipo a Colono, Konchalovsky è parco di anticipazioni. Parla invece delle tre maschere della tragedia antica, quelle del riso, del potere terrifico e del pianto. Parla dell’importanza della memoria, soprattutto per le nuove generazioni, citando Umberto Eco. Parla della crisi della cultura occidentale dopo il post-modernismo. “La Cultura sta evaporando” dice, e mentre lo dice la sua voce si assottiglia. Ripete che l’importante non è parlare dello spettacolo ma vederlo, perché contiene delle immagini. Parla del compito dell’arte, che non è quello di trasmettere idee e pensieri ma sentimenti, come ha detto Tolstoj. Quale lingua e quali parole parlerà dunque il suo Edipo? Lo vedremo e lo “sentiremo”.
Anna Trevisan
Odeo del Teatro Olimpico di Vicenza
Incontro con il Maestro Andrei Konchalovsky per la prima assoluta di “Edipo a Colono. Il Re randagio”; con Jacopo Bulgarini d’Elci, Vicesindaco e Assessore alla Crescita del Comune di Vicenza e Flavio Albanese,presidente della Fondazione TCV
Mimmo Cuticchio compare sulla scena monumentale e terrifico, con una folta barba e una camicia bianche, di un candore che stride con quella sua voce cavernosa e ancestrale che tanto lo fa assomigliare a Mangiafuoco. Con la sua spada di legno fende imperioso l’aria, le scuce parole sonanti che inanella in un magico “Cunto”: il racconto della follia di Orlando, delle Gesta eroiche e leggendarie dei Paladini di Carlo Magno. La sua voce è profonda, travolgente, e rotola liquida e massiva, avvincendoci in un silenzio rapito, appena preceduto dalla musica dal vivo di archi e di fiati, che avranno poi il cruciale compito di ancorare al ritmo l’immaginazione e la visione delle scene successive.
Alla teatralità maestosa del “cuntista”, all’ipnotica capacità di narrare in modo autorevole, di affabulare in modo divino e di suscitare visioni, Cuticchio mescola l’antica arte siciliana dei Pupi, ovvero delle marionette, che intrecciano in scena le loro scintillanti e sferraglianti armature metalliche, ingaggiano battaglie e lotte mirabolanti, combattono mostri e spiriti in Castelli dell’Inganno, volano per aria ma sempre restando appese ai fili della musica e dei pupari, che li torcono e li manovrano con leggerezza favolosa. Così l’Epica delle Gesta dei Paladini prende corpo: ecco Ferraù il Saracino sfidare a morte Argalìa, fratello della bella Angelica; ecco Orlando diventare furioso e sradicare alberi e sollevare giumente; ecco Astolfo cavalcare alati ippogrifi, andare sulla Luna e ritrovare il Senno perduto; ecco la narrazione pura far lievitare l’immaginazione del pubblico, che oltre alla visione ritrova l’ascolto.
Impareggiabili le concitate e accaldate scene delle battaglie tra Saracini, e Paladini dai colorati pennacchi che brandiscono spade. L’arrivo di Astolfo sulla Luna è radiante e visionario. Per terra la proiezione di bolle di luce ricrea atmosfere spaziali, e Cuticchio fà dire ad Astolfo: “Non sono stati gli Americani e manco i Russi ad arrivare primi sulla Luna. Siamo stati Noi!”. Tutti ridiamo soddisfatti per questa magica, vivida, letteraria verità, e applaudiamo grati di tanta traboccante, colta bellezza, perché la creatività fantastica di Mimmo Cuticchio messa al servizio della visione e della traduzione teatrale ci ha restituito l’Orlando Furioso, così come già fece in Letteratura Italo Calvino. In modo magistrale.
Anna Trevisan
Teatro Olimpico di Vicenza, 11-12 Ottobre 2014
La pazzia di Orlando, ovvero il meraviglioso viaggio di Astolfo sulla Luna
adattamento scenico e regia di Mimmo Cuticchio; pupari Mimmo e Giacomo Cuticchio, Fulvio Verna, Tania Giordano; musicisti Nicola Mogavero, Marco Badami, Mauro Vivona, Alessio Pianelli e Francesco Biscari; luci di Marcello D’Agostino; organizzazione di Elisa Puleo
A distanza di quasi vent’anni dal debutto del suo Giulio Cesare qui riproposto in alcuni frammenti, sopravvive tutta la dirompente e provocatoria irriverenza di Romeo Castellucci, che è diventata vera e propria cifra distintiva del suo fare teatro. Un teatro divergente, eccentrico, eppure in asse con la Classicità perché colto, coltissimo e audace. “…Vskji”: “Chi era Costui?”– saremmo tentati di chiedere tutti al personaggio vestito di bianco, come epiteto per questo enigma spaventoso che risveglia illustri fantasmi: Groto(w)ski e/o Stanislavski? Ma tutti eludiamo la domanda principale, per praticità: perché scomodarli, i fantasmi?
“…Vskji”, dunque, si esplora con un sondino lo sfintere del naso e proietta sul fondale di statue neoclassiche il risultato. Cesare entra in rosso smagliante, producendo un rumore dei suoi passi amplificato da invisibili microfoni. Il suo alter ego –un busto bianco in gesso- viene calato giù dal soffitto con una corda e lasciato penzoloni a testa in giù. L’uso dello spazio è geniale, pittorico e in armonia sorprendente con il Teatro Olimpico di Vicenza, che offre una scenografia quasi “naturalmente” congeniale alla icastica ieraticità degli attori in scena.
La Metafisica di De Chirico con Castellucci prende volume, assorbendo letteralmente la parola, che si auto esilia progressivamente dalla declamazione al frammento, dalla voce al discorso afono. L’assenza, la mancanza -o forse l’origine- della parola è sottolineata anche visivamente. Prima dalle cavità della narice, poi dalla gola tracheotomizzata di Marco Antonio. Lui, che non potrebbe più parlare ma parla, invece, e pronuncia con ostinazione il suo discorso. Le sue parole sono afone e quasi incomprensibili eppure già note e per questo ancor più drammaticamente efficaci. Come se il già detto, per essere compreso, fosse meglio dirlo senza udirlo. Come se il già stato, per non ripetersi, dovesse venir solo mostrato, non spiegato.
Giulio Cesare invece non parla ma indica, usando una gestualità immensa, letteralmente amplificata, che produce rumore. L’assertività del pugno chiuso, il diniego perentorio, lo sdegno, l’ordine imperioso di andarsene fuori da qui, tutti, la mano come una pistola, le braccia rotanti come lame di senso silenziato ma ancora in vita creano un universo, un linguaggio eccezionale. Frasi intere si costruiscono con i suoi lunghi gesti: “Andate via da qui!”, “Il Futuro è alle spalle”, “State buttando tutto all’aria” –sembra urlare Cesare, mentre solleva le braccia verso l’alto e le fa ruotare come a sgombrare tempeste.
La sua morte ne fa un cadavere chiuso in un sudario con la zip e apparizione velata rosso sangue. Il quadro scenico è muto di uomini ma denso di geometrie compositive: il busto di Cesare che penzola dal soffitto, il cubo/rocchetto squadrato con scritto “ARS” sul quale sale poi Marco Antonio ad arringare la folla, sforzandosi di continuare a parlare e noi di ascoltare. Poi, la musica soverchia la parola, ed una ad una le nove lampadine si spengono, lasciando posto al buio.
Anna Trevisan
67° Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza
Teatro Olimpico di Vicenza, 3-4 Ottobre 2014
Giulio Cesare. Pezzi staccati
Intervento drammatico su William Shakespearedi Romeo Castellucci; ideazione e regia di Romeo Castellucci; con Dalmazio Masini, Simone Toni e Frans Rozestraten ; assistenza alla regia Silvano Voltolina; tecnica Gionni Gardini; produzione Socìetas Raffaello Sanzio; grazie alla collaborazione di Accademia di Belle Arti di Bologna