Last Night in Soho. TV, TV! Manco una serie Netflix ma uno sceneggiato RAI anni “60, fra Il segno del comando e Il dottor Jekyll con Albertazzi, con in più colori, effetti speciali mirabolanti e musiche a palla. E fra allucinazioni, fantasmi e memorie materne, gran parte del film è ambientato proprio in quegli anni “60, nella swinging London prima dell’esplosione dei Beatles, perfetta esca di mercato per anziane signore in cerca di memorie perdute. Numerosi i riferimenti culturali “alti”, dal Giro di vite di H. James a Foglie di primavera di Laing ed Esterson (altro prodotto londinese dei roaring sixties) e, perché no, Arsenico e vecchi merletti”. La psicosi come via per la verità è rappresentata con mirabolanti visioni, ché sullo schermo le ben più tipiche voci allucinatorie vengono male (cfr. A beautiful mind ma anche Shining). Infine il suggello definitivo del prodotto di bassa televisione: l’happy end psichiatrico-democratico, l’orfanella persa nella città tentacolare e nei meandri della follia ritrova se stessa, mentre il fantasma della mamma suicida saluta dallo specchio.
Poi la buona TV, naturalmente un prodotto HBO. Visti due episodi della serie scritta, diretta e prodotta da Hagai Levi da Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman. L’autore è il creatore del successo planetario In treatment, ri-prodotto in più lingue in diversi paesi, che inscenava le sedute di psicoterapia di un tormentato psicoterapeuta, Sergio Castellitto nella versione italiana. I tormenti di una coppia di ebrei americani che non sanno separarsi affrontati in tormentate sessioni di odio e amore in una casa che si disgrega come il loro rapporto. Le dissonanze e le disritmie dell’attrazione e della ripulsa, mai in fase fra loro, rivelano le vicende penose e vergognose dei due personaggi, come in sedute di psicoterapia. Ambedue risultano condannati ad un egocentrismo disperato, incapaci a cogliere i sentimenti l’uno dell’altra, sentimenti che devono essere esposti in parole per cercare, inutilmente, di intendersi. Le angosce e le miserie delle loro vite si differenziano però da quelle dei personaggi di Bergman, per quanto è dato ricordare. In ballo desideri, carriere, invidie reciproche, diverse dall’abisso di solitudine, di dolorosa consapevolezza che si apre dinnanzi alla coppia svedese. Ottima TV, quindi, ma il Mostro non ha apprezzato di doverla vedere seduto in una poltrona, semi assiderato dall’aria condizionata. Attende di poterla gustare, un episodio alla volta, dal divano di casa.
Lido di Venezia, Sabato 4 settembre | Giornate degli Autori
Io li odio i “corti”, quasi quanto Jake Blues odiava i nazisti dell’Illinois. Me ne hanno propinato uno, “L’ultimo spegne la luce” prima di “Erasing Frank” di Gabor Fabricius (vi risparmio il titolo originale ungherese).
Il corto italiano era un insulso saggio di fine anno di qualche Accademia di Cinema e, mentre la mente correva a Tarkovskij che si laurea a 20 anni girando “L’infanzia di Ivan”, ho dovuto assistere alla litigata isterica di due yuppie mancati e fidanzati davanti a una porta bloccata. Take unico senza stacchi, carrello avanti, poi carrello indietro, suono in presa diretta… Seeh, che bravura, che stile! Lassamo stá.
Forse inclino al romanesco per via che il protagonista della pellicola ungherese sembra il gemello di Zero Calcare, metallaro e non punk, oggetto delle attenzioni poliziesche e psichiatriche di uno stato socialista al tramonto, Ungheria 1983. Talentuoso in ambito musicale, Frank passa dalla chitarra elettrica a un Microcosmos di Bartok accennato al pianoforte. Il potere riconosce il talento e vorrebbe acquisirlo, non riuscendovi deve cancellarlo. Il talento, non Frank. In bianco e nero, con la camera incollata al volto del protagonista, il film assume spesso caratteri da graphic novel, nella sequenza della riunione in casa di intellettuali oppositori le inquadrature rimandano alle tavole della Valentina di Crepax. Un cupo senso di estraneità alla Storia avvolge persecutori e perseguitato, un mondo sta finendo ma nessuno ne è consapevole.
Lido di Venezia, 2 settembre 2021 | Addio mostri sorgenti dalle acque … | Forse saranno le ultime corrispondenze dal Lido del vostro Mostro. Passata la serena atmosfera post atomica della edizione 2020, la rassegna cinematografica è quest’anno affollatissima, vigono le stesse regole di prenotazione ad ogni proiezione e il risultato è che la possibilità di vedere un determinato film dipende da una darwiniana competizione in rete per aggiudicarsi un posto distanziato in sale dalla capienza dimezzata. La prenotazione obbligatoria dovrebbe evitare gli assembramenti che, invece, fioriscono al tiepido sole di settembre. Inoltre la disfida cibernetica sullo schermino dello smartphone mal si adatta ai suoi tentacoli ed il risultato è che il vostro corrispondente riesce a vedere quello che avanza. Umiliante. Se non si superano le conseguenze del virione il Mostro qui non ci torna più, forse emigrerà… C’è il festival di Locarno, con il Lago Maggiore, con acque più fredde ma forse più limpide di quelle della Laguna.
The Card Counter di Paul Schrader Così, nella logica del “vediamo che riusciamo a vedé” sono capitato a vedere un film “al buio”, come a un tavolo di poker. Ed è capitata una pellicola ben girata e benissimo scritta dallo sceneggiatore di Taxi Driver e Toro Scatenato, oltre che regista di molti film di successo (American Gigolò). Gioco d’azzardo e colpe da espiare. La mente corre a Dostoyevsky, ma la rappresentazione che ne risulta è intimamente calata nella mentalità, nello scenario e nella storia degli Stati Uniti, delle quali il film dà una rappresentazione più convincente di quella di Nomadland, vincitore della scorsa edizione della Mostra. Innanzitutto l’atteggiamento verso il gioco d’azzardo del cittadino americano appare libero da ogni giudizio morale. L’azzardo è piacere ludico, rispettabile attività professionale, antidoto alla solitudine, verso il quale non si prova colpa o vergogna. Come per il possesso di armi. Le colpe, proprie e dei padri, emergono invece quando entrano in gioco i corpi. (Allora le forze della religione e della legge entrano in campo e abbiamo il proibizionismo, la war on drugs, le campagne per la castità, la legge del Texas sull’interruzione di gravidanza.) Il protagonista non riesce a mantenere il ruolo di rispettabile giocatore, lucido e non compulsivo, riemerge la colpa per i corpi che ha violato, il sentimento di non aver espiato abbastanza, di non aver riparato alle conseguenze del male esercitato. Da ammiratore di Bresson, Schrader disegna una vicenda segnata da un destino ineluttabile, girata però nello stile di Scorsese, uno dei produttori.
S.M. alias Il Mostro Marino
THE CARD COUNTER Venezia 78 Concorso Regia:Paul Schrader Produzione: Braxton Pope, Astrakan Film (Lauren Mann), David Wulf, Saturn Streaming, Redline Entertainment in associazione con LB Entertainment, Enriched, Media Group, Grandave Capital, One Two Twenty Entertainment Durata: 112’ Lingua: Inglese Paesi: Usa, Regno Unito, Cina Interpreti: Oscar Isaac, Tiffany Haddish, Tye Sheridan, Willem Dafoe Sceneggiatura: Paul Schrader Fotografia: Alexander Dynan Montaggio: Benjamin Rodriguez Jr. Scenografia:Ashley Fenton Costumi:Lisa Madonna Musica:Giancarlo Vulcano, Robert Levon Been
Terzo appuntamento con la voce della scrittrice e poetessa Marta Telatin. La poesia di oggi si intitola “Io i colori li lascio” (Miraggi Edizioni, 2017).
POESIE AD ALTA VOCE | La poetessa e scrittrice non vedente Marta Telatin legge ad alta voce la sua poesia: “Quando gli occhi guardano di più” accompagnata dalle note del musicista Valter Tessaris.
"Quando gli occhi guardano di più" è tratta dalla raccolta: È tutta colpa del tiramisù, Marta Telatin (Rapsodia edizioni).
POESIE AD ALTA VOCE | Oggi lunedì 17 maggio inauguriamo la nostra nuova rubrica: “Poesie ad alta voce”, curata dalla scrittrice e poetessa Marta Telatin. La prima poesia letta ad alta voce si intitola: “Parlo con i fiori e saranno stupendi” tratta da: È tutta colpa del tiramisù, Marta Telatin, Rapsodia edizioni.
“Lattaia” (particolare) di Jan Vermeer (1658-60, Rijksmuseum di Amsterdam)
Tra il 22 e il 25 aprile si celebrano tre ricorrenze importanti: la Giornata internazionale della Terra, il Giorno del ricordo per il genocidio armeno, l’anniversario della Liberazione dell’Italia. In quest’anno strano, di corpi isolati dalla pandemia, manifestare insieme per proteggere il ricordo di quanto è stato e la speranza di quanto vorremmo che fosse, è più difficile. Nell’ascolto, forse, ancora una volta possiamo trovare un nuovo “non-luogo” di incontro. Questo è un testo che scrissi qualche anno fa, su commissione di due artisti francesi, Cecile Proust e Jacques Hoepffner, per la versione italiana del loro spettacolo Ethnoscape. All’epoca ero al nono mese di gravidanza, con un pancione enorme, fasciato sotto il blu elettrico di larghi pantaloni che usai per andare in scena e recitarlo davanti al pubblico. Insieme alla mia bambina, rannicchiata dentro di me, ad ascoltare.
Mia nonna raccontava sempre di quando, quel giorno del ’44, era andata a prendere il latte in viale.
Mia nonna mi raccontava che, per lo spavento, il secchio del latte le era caduto per terra.
Perché all’improvviso tutto l’orrore del mondo si era concentrato lì, davanti a lei, una ragazzina che era solo andata a prendere il latte.
Era mattino presto, saranno state le sette.
Ad ogni albero del viale era appeso un corpo.
Ogni corpo pendeva come un sacco, pesante, sporco, con attorcigliato intorno al collo un filo della luce.
C’era silenzio. Poi mia nonna ha urlato, ha urlato così forte che le è caduto per terra il secchio del latte.
Il latte è caduto tutto fuori, bianco, a fiotti, bagnando tutto intorno, bagnandole le scarpe, bagnandole il vestito.
Per lo spavento, quella mattina, mia nonna aveva versato tutto il latte per terra e la terra era diventata bianca.
Chissà se sono rimasti in silenzio quei trentuno corpi impiccati.
O se hanno urlato, prima di morire.
Il silenzio sui morti ha sempre un peso strano.
C’è il silenzio di chi resta, e quello di chi muore.
E poi, c’è il Silenzio pubblico, il silenzio politico che tace prepotentemente sui morti.
Chissà se sono rimasti in silenzio quei corpi di migranti, prima di affondare, giù, in fondo al Mare.
Chissà se sono rimasti in silenzio i soccorritori, vedendoli affondare.
Silenzio sui morti.
Per pietà e per paura.
Per terrore di finire come loro, impiccati, lasciati a seccare, a puzzare nell’aria ispida d’autunno o ad affondare nell’acqua del mare.
Chissà quanti secchi di latte sono stati versati per terra dalle donne il mattino, dopo la strage di Srebrenica.
Chissà quanti secchi di latte sono stati lasciati cadere per terra, all’improvviso, in Uganda, in Nigeria in Congo, nella fuga disperata delle donne dai guerriglieri.
Chissà se loro, i torturatori, i persecutori, gli assassini sono rimasti in silenzio dopo aver ucciso.
Chissà se hanno pianto, quando sono tornati a casa.
Anna Trevisan
Il testo è stato scritto e rappresentato per lo spettacolo Ethnoscape di Cécile Proust e Jacques Hoepffner (Bassano del Grappa, Palazzo Bonaguro, luglio 2015) e si ispira ai fatti del 26 settembre 1944 occorsi a Bassano del Grappa lungo quello che oggi si chiama Viale dei Martiri.
La presentazione in conferenza stampa dei programmi di Danza Musica e Teatro della Biennale di Venezia 2021
14 aprile 2021 | C’è qualcosa di nuovo e diverso in questa conferenza stampa senza spettatori, condotta in maniera congiunta dai tre direttori dei settori Danza Musica e Teatro della Biennale di Venezia, in diretta streaming dalla sede fisica di Ca’ Giustinian, a Venezia. È scomparso il lato frizzante e superfluo della comunicazione. Sono sparite quell’aura mondana e radical chic dell’attesa tra i presenti in sala, quel vociare prima dell’inizio, i bisbigli e i convenevoli tra i convitati, le frasi stucchevoli. È il regno dell’assenza, della sottrazione, dell’essenziale. Le parole sono ponderate e chiare, scelte con cura, con parsimonia, con attenzione. È il momento dell’ascolto per tutti noi, pubblico invisibile e virtuale, novelli acusmatici senza diritto di replica.
Ad inaugurare la conferenza stampa il presidente della Biennale di Venezia Roberto Cicutto, che introduce rapidamente i direttori di settore. I primi a prendere la parola sono Stefano Ricci e Gianni Forte, direttori della Biennale Teatro (Blue, 2-11 luglio 2021) seguiti dal direttore del settore Danza Wayne McGregor (First Sense, 23 luglio-1 agosto 2021) e dalla direttrice del settore Musica Lucia Ronchetti (Choruses, 17-26 settembre 2021). Qui di seguito riportiamo la prima parte della conferenza stampa.
Blu | Il colore dell’inatteso | Stefano Ricci
“Il cielo è blu perché tu vuoi conoscere perché il cielo è blu”. Apre così Stefano Ricci, citando con trattenuta emozione una frase tratta da I vagabondi del Dharma, di Jack Kerouac. E nel blu Ricci cattura tutto il disorientante lungo presente che tutti noi stiamo forzosamente vivendo: i dodici mesi di blocco totale, di sospensione del quotidiano, la chiusura dei teatri. Blu secondo Ricci è il colore dell’inatteso, che ci mette di fronte due strade: accettarlo passivamente oppure “trasformarlo in una sfida, sviluppando la propria intraprendenza […] per reagire e riprendere ad edificare quella che è l’architettura di un teatro possibile”.
“Il nostro percorso disegnato per questi quattro anni alla direzione del settore teatro della Biennale di Venezia” – prosegue Ricci – è improntato su una scelta di colori. Colori. Perché il pigmento è un qualcosa che sfugge ad ogni possibilità di categorizzazione […] come il teatro [che], in qualche modo, è qualcosa che non ha bisogno di perimetri. Blu come la volta celeste che ci unisce tutti. “Blu sarà il colore di quest’anno, sarà il disegno che proveremo ad esprimere per raccontare questa volontà di ripresa e di rinascita ma anche per raccontare il blu di domani, con Biennale College […] del quale mai come quest’anno abbiamo bisogno per dare fiducia ai giovani, per dar loro la possibilità di disegnare nuove linee”. Nuove linee che verranno tracciate attraverso le attività di scouting: il bando di regia; il bando autori e , novità di quest’anno, il bando per site-specific.
“Perché proprio in un periodo i cui l’edificio del teatro è diventato un luogo che provoca timore, abbiamo bisogno di riportare il teatro alla gente, nei campielli, nelle piazze e far ascoltare comprendere alle persone che il teatro non è solo intrattenimento ma anche un momento di condivisione e di presa di coscienza. Il teatro ha bisogno del pubblico ma allo stesso modo il pubblico, il nostro Paese ha bisogno del teatro per continuare a credere che questo rito sia necessario” – conclude Ricci prima di passare la parola a Gianni Forte.
Blu | Una magnetica melodia universale | Gianni Forte
“Questa nostra edizione del festival per i motivi che tutti noi conosciamo sarà una sorta di concentrato vitaminico, energizzante, nutriente soprattutto per l’anima, ma anche per la vista, per non smentire quella fama di guastatori non allineati che da sempre ci precede. Un concentrato composto da undici spettacoli, undici pepite che come cercatori d’oro abbiamo cercato […]” – esordisce Forte.
“Tutti questi spettacoli insieme ai tre bandi college, a forum ed incontri con alcuni degli artisti presenti al festival, due tavole rotonde, otto masterclass coadiuvati da ensemble di studiosi, giornalisti, maître d’eccellenza contribuiranno a creare una sorta di magnetica melodia universale che ci accompagnerà per scoprire i lati oscuri, la crudezza ma anche la dolcezza di quest’esistenza”.
“Ciascuno di questi spettacoli […] contribuirà a prenderci per mano per farci attraversare questa selva oscura di dantesca memoria e per farci avere così una sorta di interpretazione interpretare l’oggi, il presente. Ciascuno spettacolo avrà un suo sguardo, un suo flash che permetterà di impressionare la lastra del tempo che stiamo vivendo e perché no, profeticamente, magari anche di quello che verrà. E tutti insieme, come prendendoci per mano, attraverseremo questo periodo buio” – prosegue Forte che sceglie di concludere il suo intervento con un breve ma accorato appello alle istituzioni italiane: “Basta. Per favore, fateci ritornare a casa, nei nostri teatri, nei nostri spazi di cultura”.
Poi, con altrettanta compostezza, elenca in ordine cronologico i nomi degli spettacoli e degli artisti che animeranno questa edizione del festival: We are Leaving di Krzysztof Warlikowski, Leone d’Oro alla carriera; Uno sguardo estraneo (ovvero come la felicità è diventata una pretesa assurda) con la regia di Paolo Costantini, vincitore del bando registi under 30, tratto da un testo di Herta Mueller; Nel lago del cor di Danio Manfredini; OHT, Un teatro è un teatro è un teatro è un teatro; In exitu di Roberto Latini tratto da un testo di Giovanni Testori; Hard to be a god di Kornél Mundruczó; L’altro Stato di Lenz Fondazione, tratto da un testo di Calderon de La Barca; Qui a tue mon per di Thomas Ostermeier; The Mountain di Agrupación Señor Serrano; The Book of Traps & Lessons di Kae Tempest; Sunday, la coreografa ungherese Adrienn Hód.
Noi aspettiamo con tenace ardore di ascoltare dal vivo Kae Tempest, insignita/o del Leone d’argento 2021 e presentata/o da Forte come “una delle voci più emblematiche più innovative più sincere della spoken-poetry degli ultimi anni […]” e come un artista che “è riuscita/o a mescolare ritmi e rime dal sapore shakespeariano con l’hip hop, che è riuscita/o ad entrare nei nostri cuori, facendoci riflettere una dolorosa e personale intimità”.
Le lande periferiche, le waste land che hanno inghiottito civiltà millenarie, cittadine fantasma o solo stagioni balneari, sono stati i luoghi di numerose pellicole. Il prototipo è L’ultimo spettacolo di Bogdanovich, ma altri film vengono alla mente, Sonatine di Kitano, molte sequenze di Wenders, La ballata di Stroszek di Herzog… In queste lande, di tanto in tanto, appare un improbabile eroe, un puro folle (o un puro idiota), un Don Chisciotte, un Sigfrido o un Parsifal, che sfidano la desolazione dei luoghi. È il caso del film kazako Gatto giallo, dove il protagonista, che ha conosciuto solo frammenti di film nell’orfanotrofio dove è cresciuto, vuole costruire, come Fitzcarraldo con il suo teatro, un cinema in mezzo al nulla. La messa in scena appare debitrice del citato film di Kitano. Quello che sembra un idiota rivela più fantasia e inventiva, anche criminale, dei gretti abitanti della steppa. Ben girato, buon ritmo, nel finale un elicottero nella steppa rimanda all’Elettra di Jancsò.
Ritorna il tema del lutto non risolto in Nomadland, ma anche quello delle periferie della civiltà e dell’esistenza. Perfetto prodotto della cinematografia americana, che si muove fra crudo realismo e aperto sentimentalismo, grande prova attoriale di Frances McDormand.
Il film ci introduce alla vita dei vagabondi americani in camper, che si spostano di stato in stato cogliendo lavori temporanei nei centri logistici di Amazon, nei campeggi estivi, nella raccolta delle barbabietole. Vagabondi che non si considerano homeless ma houseless, vagabondi con assicurazione sanitaria, il cui focolare è il furgone, la cui marginalità e nomadismo sono dovuti, più che a ragioni economiche, al tentativo di allontanarsi da luoghi e memorie carichi di dolore. Il lutto della protagonista va oltre la morte del marito, è la scomparsa di un’intera città che viveva per una fabbrica di cartongesso che ha chiuso. La protagonista è in fuga non dal dolore ma dal suo superamento, che significherebbe dimenticare per sempre chi ha perso. Potrebbe essere accolta in una camera con un comodo letto, preferisce andare a dormire nell’angusto furgone parcheggiato in giardino.
Genus Pan di Lav Diaz ha tutte le caratteristiche per soddisfare i perversi gusti cinematografici del Mostro. Film fluviale, nel quale i tempi lenti della rappresentazione mimano quelli che tre uomini vivono in una selva oscura evocatrice di istinti irrefrenabili e memorie dolorose. Bianco e nero di incredibile bellezza, ogni scena girata da un’inquadratura fissa, senza movimenti di macchina, senza primi piani, sviluppando tuttavia una sintassi cinematografica che mai sfocia nel teatrale. Eisenstein, che detestava la commistione fra teatro e cinema, nelle Lezioni di regia, propone come esercizio la realizzazione di una scena con camera fissa, l’uccisione dell’usuraia in Delitto e castigo, da Dostoyevsky.
Tutto il film di Diaz è un susseguirsi di delitti senza castighi e, nel finale, di sacrifici di innocenti. È la stessa tematica di Nuevo orden, anche se sviluppata secondo una logica estetica diametralmente opposta: la violenza epidemica e mimetica che, in condizioni di annullamento della trascendenza giudiziaria, avvolge tutti. René Girard, ne La violenza e il sacro, propone il rituale del sacrificio dell’innocente, del capro espiatorio, come originario e universale dispositivo simbolico posto ad argine alla violenza generalizzata, a questa essenza animale inscritta nel nostro patrimonio genetico. Suggerisce tuttavia il superamento della logica del capro espiatorio da parte di due sistemi simbolici storicamente più recenti, la nascita delle regole giuridiche e la dottrina cristiana, nella quale la divinità offre se stessa quale vittima sacrificale e salva la vittima innocente dal sacrificio. I tre protagonisti attraversano la selva nei giorni che precedono la Quaresima, violano il precetto di non mangiare carne il Mercoledì delle Ceneri e, nel finale, gli ultimi, insensati e ingiusti omicidi avvengono il Venerdì Santo, mentre si svolge una processione segnata da stazioni di preghiera per ognuno dei Comandamenti della Legge.
Il Mostro saluta i suoi affezionati lettori e si immerge. Di questa anomala Mostra del Cinema rimpiange l’assenza delle retrospettive che gli consentivano di godere dei capolavori del passato, possibilmente in bianco e nero. Rimpiange i film scoperti per caso, magari perché c’era poca fila all’ingresso, le discussioni con sconosciuti durante le file. Poi, per sua forma mentis, detesta prenotazioni e password. Comunque, come ha detto il suo amico Marcello, per noi di bassa statura il distanziamento è una manna. Riflettere per iscritto sui film che ha visto, sostiene il Mostro, è un esercizio prezioso di lubrificazione dei tentacoli e delle meningi. Tornerà quindi a proporvi ancora le sue riflessioni. Al prossimo anno. Spluf. Glub.
Lido di Venezia | mercoledì 09 e giovedì 10 settembre 2020
Come sanno girare bene i giapponesi! Da una sceneggiatura non eccelsa, e a tratti poco credibile, il film Wife of a spy realizza un opera accettabile. Le inquadrature sono ampie e ben costruite, il punto di vista è quello di un osservatore umano, senza inutili dolly a volo d’uccello, nessuna steadicam, rari primi piani. Molta attenzione alla composizione delle immagini, al colore, al ritmo narrativo, il film si rifà al cinema giapponese classico, Mitzoguchi, citato nei dialoghi, e Ozu. Come abbiamo detto, la storia è discutibile ma ricorda quelle melodrammatiche del teatro kabuki. Manca lo spettro, ingrediente molto adoperato nel teatro popolare giapponese. Qui è sostituito dalle fantasmatiche ombre di un filmino amatoriale a passo ridotto.
La realizzazione de Le sorelle Macaluso, invece, spreca la grande qualità della scrittura di Emma Dante. Il Mostro è un devoto ammiratore della regista e drammaturga palermitana, della potenza delle sue messe in scena, del rigore minimale delle scenografie, della bellezza dei testi. Nella pellicola presentata alla Mostra ritroviamo, invece, tanti difetti dilaganti nella produzione cinematografica nazionale. Inutili movimenti di macchina, inutili primi piani, indifferenza alla composizione delle inquadrature, fotografia tirata via, “sporca” per nessuna esigenza narrativa. L’impressione è che il marchio produttivo RaiCinema pesi come una maledizione su buona parte del cinema italiano. Anche in questa opera un lutto non risolto è il baricentro della narrazione e il preludio a lutti successivi. La Dante ha voluto discostarsi dall’opera teatrale, che si sviluppava lungo il flusso dei ricordi, e adotta una precisa organizzazione della storia in tre tempi. Il tempo delle ragazze e della gita al mare, il tempo dell’infelice maturità e delle luttuose memorie, il tempo della casa vuota. Al Mostro ha ricordato “Gita al faro” di Virginia Woolf.
Il film Nowhere special di Uberto Pasolini è un altro esempio di rigore stilistico. Immagini essenziali e prive di fronzoli, debitrici della lezione di Ken Loach, per una storia dolente ma non commovente. Il regista ha abbandonato la delicata espressione delle emozioni che, di tanto in tanto, si affacciava in “Still life”. Qui il sentimento prevalente è lo smarrimento davanti all’abbandono, vissuto dal padre e avvertito da un figlio già privato, alla nascita, di una sicura fonte di attaccamento. È anche una ricognizione del frequente tentativo di coppie che si sentono incomplete di risolvere la loro percezione del nulla e dell’insensato generando o adottando un bambino. È quello che, del resto, era avvenuto al protagonista. I due protagonisti potranno sembrare poco espressivi, la loro performance monotona e monocorde, siamo invece alla rappresentazione della riduzione della gamma delle emozioni che la consapevolezza della fine impone.
Si uccide o si è uccisi, si uccide il nemico ma anche la vittima del nemico che potrebbe svelare le nostre debolezze, si uccidono gli innocenti per cautelarsi. È il tema di Nuevo orden del regista messicano Mchel Franco. È opportuno, a questo punto, citare un passo da “La violenza e il sacro” di Renè Girard. “In un mondo privo di trascendenza giudiziaria e in preda alla violenza, ciascuno ha ragione di temere il peggio; si cancella ogni differenza tra la “proiezione paranoica” e la valutazione freddamente obbiettiva della situazione”. Può sembrare eccessiva questa storia distopica, ambientata nel Messico odierno, in cui si immagina che la violenza colpisca prima il sottile strato sociale dei ricchi per poi diffondersi nell’intero corpo sociale e trovare solo nel sacrificio, assieme, degli innocenti e dei perpetratori, un possibile argine. Ricordiamo che in Messico le truppe meglio addestrate e meglio armate dell’esercito hanno costituito nuovi cartelli narcos e proprie milizie private, in grado di controllare regioni intere della nazione, completamente aldilà della “trascendenza giuridica”. Film nel quale la violenza efferata, la crudeltà, la corruzione, l’inganno e l’indifferenza per le vittime scorrono dall’inizio alla fine. Forse un film attuale, che parlando di un Messico in crisi allude a tutti gli “stati falliti” presenti oggi sulle carte geografiche, ma difficile da sopportare. Dura meno di un’ora e mezza che sembra un’eternità.