
Emma Dante. Foto di Carmine Marignola
di Anna Trevisan
Incontrare Emma Dante è come incontrare una famiglia intera, schiere di nipoti, di zie, di sottane, e di maschi maritati e marinai vigilati da genitori colti e nonni miracolosi. Ascoltarla è come ascoltare il mare salato di Sicilia, prima che ci arrivasse Ulisse, prima che Omero lo cantasse. Perché Emma Dante è quel mare azzurro, imperlato di sole ma imperioso d’inverno; spaventoso e agitato ma con sublime leggerezza.
Emma entra nell’Odeo piccina, con i capelli raccolti, le labbra dipinte di rosso e una camicia che fa pensare agli animali della giungla feroce. Eppure la sua voce è sottile, pulita, quasi bambina, anche se parla pensieri adulti. Gianfranco Capitta snocciola calmo tante domande, con capelli bianchi e pazienti, per raccontare a noi pubblico Emma l’attrice, Emma la drammaturga, Emma la regista teatrale, di opere liriche e pure di film, e, infine, anche la Emma persona.
I luoghi dell’infanzia
I luoghi sono il primo sasso lanciato da Capitta per sondare i fondali, esplorare gli anfratti della biografia artistica e umana di Emma.
Emerge subito Palermo, dove Emma tutt’ora lavora in uno sgangherato scantinato eletto a cantiere di spettacoli e casa di mille laboratori. Nonostante esista un Teatro Stabile che la ospita in cartellone, infatti, non ha ancora ricevuto “una stanza tutta per sé” dalla Città di Palermo dove poter provare e lavorare.
Ma non sembra affatto scoraggiata nel dirlo. Forse perché Mpalermu, il suo spettacolo d’esordio che ha scardinato la letteratura classica e inventato la tradizione, è nato in un garage. Forse perché la periferia di Palermo è il grembo di Emma. Quella periferia che ci ha mostrato nel film Via Castellana Bandiera. Quella periferia che, dice, è molto più di un luogo fisico: è uno stato d’animo. La Sicilia, dice, è la sua stanza d’infanzia, che per ogni artista è la fonte prima di ispirazione. Ogni artista ha una stanza dei giochi a cui attingere e Palermo, la Sicilia sono per Emma questa grande stanza dei giochi.
La lingua madre
La maggior parte dei suoi spettacoli sono recitati in dialetto palermitano.
“Il palermitano è una lingua che ti addormenta” – dice Emma- “che ti culla”. E che la fa pensare a sua madre, anche se sua madre non parlava il dialetto. Ma la sonorità del palermitano le ricorda proprio questo: sua madre. “I linguaggi che un artista usa sono una forma di addormentamento”- aggiunge- e il sonno , “il sonno è un momento temporaneo che assomiglia alla morte e che ha in sé qualcosa di mostruoso.”
Un mostruoso che nei suoi spettacoli esiste, che nei suoi spettacoli plasma e modella la scena, abitata dalla ferocia della realtà, dalla furia dell’emozione, dal tormento del movimento, dalla durezza graffiante della provocazione eppure dalla pietà matura.
Il teatro, le favole e i bambini
Anche le favole dei fratelli Grimm erano tremende, prima che venissero espurgate dei loro aspetti più inquietanti, del perturbante, osserva Capitta, che ci ricorda come Emma abbia scritto anche delle favole.
“Questo Polifemo per me è una favola!” dice Emma. E poi spiega come per lei il cosiddetto teatro per bambini debba essere un teatro di serie A, fatto con rigore, con professionalità. Perché “i bambini non sono mica scemi”, a loro va dato il meglio. Sono più importanti del pubblico di oggi perché sono il pubblico di domani. “I cattivi nelle mie favole non vengono perdonati. Vengono puniti”-dice. E il pubblico in sala scoppia a ridere. Che cosa strana fare giustizia, almeno nelle favole! Favole gay-friendly, come La bella Rosaspina addormentata, dove il principe mascherato è una donna. E quando la principessa lo scopre è ormai troppo tardi: se ne è già perdutamente innamorata. Nessuna scena scabrosa, per carità. Solo un onesto fare spazio all’esistenza del diverso. Quando la principessa bacia sulla bocca il principe-donna, “l’unica reazione dei bambini è quella di guardare la reazione dei genitori” [perché] “sono i grandi che decidono che cosa devono pensare i bambini”- commenta Emma.
Mito, Memoria, Antropologia
Gianfranco Capitta osserva come il mito, la memoria vengano spesso evitati dagli autori contemporanei. Invece Emma ci si butta corpo a corpo, li affronta, ci lavora sopra con molta originalità. Perché quest’abitudine “divergente”? Perché –risponde lapidaria Emma “per me il crocifisso è molto più contemporaneo di una lattina di Coca Cola”. E con questa frase annoda la sintesi del suo fare teatro, che è molto più che contemporaneo. È un teatro fatto di radici, tradizioni, costruito con una abilità quasi da antropologa, che registra e dà voce a tutte le inquietudini, a tutte le voci senza curarsi che siano colte o popolari. Che poi, in fondo, è la stessa cosa, secondo noi. Perché l’Odissea è come gli affreschi di Giotto:
per aver parlato ai poveri, per aver parlato al popolo è diventata Arte e Letteratura. Perché la cultura, diceva qualcuno, è la nostra Memoria, il nostro archivio dove sfogliare e riguardare come eravamo e come siamo. Emma sostiene non a caso di “sentirsi più a suo agio con i classici”.
Il compito dell’Arte secondo Emma Dante
Emma racconta di come ami mettere in difficoltà i suoi attori, di come esiga che psicologicamente non si sentano mai al sicuro, mai salvi. Spesso modifica gli spettacoli poco prima di andare in scena, li rivolta, li aggiusta e questo confonde e disorienta un attore, lo fa sentire in pericolo. Che è esattamente quello che Emma desidera. Perché è l’unico modo possibile e necessario per mantenere vivo il fuoco del fare teatro, il cui compito, come dell’arte in generale, secondo Emma, è quello di sollevare domande, mettersi in discussione e mettere in discussione. Chi fa teatro si deve mettere in difficoltà perché fare teatro significa farsi e fare domande. Ma le domande devono essere precise, e riuscire a farle bene è la cosa più difficile.
Maschilismo, Accademia e Tradizione
Emma sa di essere una delle poche registe donna a lavorare con successo in Italia e, da innamorata del linguaggio e della lingua, non si lascia scappare l’occasione golosa di fare dell’ironia con il pubblico sui modi di dire. “Quella donna ha le palle”, si è sentita dire. Ma perché non invece “Quella donna ha l’utero e le ovaie?”, si sorprende sincera a domandare a noi pubblico.
Poi dà una svirgolata al discorso, parla di sé, di quando frequentava l’Accademia Silvio D’amico a Roma. “L’Accademia”-dice sorridendo –“mi è servita a capire tutto quello che non volevo fare!”. Dice di non essere affatto una brava attrice. Dice di aver capito che non era brava abbastanza a recitare per diventare speciale, per avere una specialità nel recitare. Ma è proprio come attrice che ha cominciato a lavorare. E racconta dei due anni in cui ha lavorato con Valeria Moriconi. Lei, che era un’attrice come non ce ne sono più, che salpava per mesi lontana da casa in tournée infinite che facevano dell’attore un nomade, un errante. Si portava sempre appresso un pezzettino di casa, racconta Emma: fotografie da appendere nel suo camerino, perfino i tappeti e le tende, per ricostruire gli affetti lontani, la memoria di una casa.
mPalermu
mPalermu è stato il primo spettacolo in cui Emma è diventata Emma. La prima regia. Nata dalla disperazione e dalla crisi. “Ero appena stata lasciata dal fidanzato, mia madre stava morendo, non avevo un lavoro. Ero tornata a Palermo. Ho detto: facciamo un laboratorio di teatro. Così massacro un po’ gli attori e mi sento meglio”-dice ridendo Emma, con una gioia sottile negli occhi. Il pubblico ride, la ascolta ipnotizzato, catturato da quell’arte dell’ “addormentamento” che Emma riesce a mettere in atto anche come narratrice pura.
Gianfranco Capitta le dà del tu. Le dice una cosa bellissima, che farebbe arrossire ogni artista: “Tu hai inventato anche una grammatica del corpo, una sintassi unica. Ne sei consapevole?”. Emma ascolta, sorride e dice che non è stata lei a inventarla. Il dialetto palermitano, che lei chiama “la lingua Madre”, ha generato questa gestualità. Usa proprio la parola “generare”. Tutto in lei si riallaccia ai nodi della Vita e della Morte, tenuti stretti e vicini con una forza e una bellezza davvero non comuni. Della Morte infatti Emma parla spesso, in questo incontro magico che dura un’ora ma che è di tale intensità da sembrare un’eternità. Come una sciamana millenaria, Emma nei suoi spettacoli evoca la Morte, le parla e ne parla, rompendo un tabù che la vuole fredda, rigida, immobile. In mPalermu , Emma fa morire il suo personaggio non disteso, ma piegato. Perché, secondo Emma, la Morte in dialetto non riesce a trovare una comodità. Mai. Per questo anche i corpi degli altri attori in mPalermu non cadono mai, benché ci sia sempre l’intenzione della caduta. Su quest’intenzione mai compiuta si fonda il Teatro per Emma.
La Carmen e i fischi della Scala
“L’Opera lirica è arrivata dopo”, incalza pacato Capitta, che spiega al pubblico come Emma sia una fondista del palcoscenico. Nel 2009 ha firmato infatti anche la regia per la Carmen di Bizet alla Scala di Milano, diretta dal Maestro Daniel Barenboim. La sua Carmen è diventata un caso nazionale. Fischi, applausi, insulti e perfino minacce di morte per quella sua interpretazione troppo forte, troppo veemente. O la si ama, o la si odia. Ma, ai fischi dei loggionisti, ha fatto da controcanto l’applauso più bello: l’abbraccio del direttore Barenboim che, sul palco e non solo, l’ha difesa. Ricorda Emma che i loggionisti inferociti l’hanno persino minacciata via email, serissimi: “Se osi rimettere piede alla Scala sei morta”. Le hanno scritto anonimi e biliosi. “Non so come dire loro”-dice ridendo- “che non solo tornerò alla Scala, ma che replicherò la Carmen, due volte. Due!”. mentre Emma racconta, una signora anziana seduta tra il pubblico continua a tormentare il povero vicino per farsi ripetere quello che è stato appena detto, perché piuttosto di ammettere che è sorda e non sente quasi niente, si ostina a sedersi tra le ultime file. Non paga, la signora anziana interviene all’improvviso nel discorso e chiede ad Emma di ripetere quanto stava dicendo perché la sua voce è amplificata scandalosamente male per essere un’intervista pubblica e ci si mette pure l’effetto eco della sala dell’Odeo. “Signora, ma quindi non ha sentito niente?”. “No, non ho sentito niente ma va benissimo tanto quando parla gesticola un sacco”-replica la signora. Emma sorride. Poi aggiunge che, in effetti, i suoi spettacoli in siciliano devono fare lo stesso effetto: li si vede ma non li si capisce.
Vita mia. Genesi di un capolavoro
“Nel tuo teatro-dice Capitta- il pubblico ha sempre due possibili letture. C’è sempre questa contiguità tra la Vita e la Morte”. Lei risponde che al Sud c’è davvero questa ambivalenza. Ai matrimoni si vedono delle “scene pazzesche”, di gente che piange disperata. Tutto è mescolato. “Io non faccio gli spettacoli per il pubblico”- aggiunge- “Faccio gli spettacoli per me”. La necessità di dire agli altri è subordinata alla necessità di dire. Gli altri, il pubblico le deve assomigliare almeno un po’. Al pubblico Emma racconta spesso di questo dialogo con l’altrove. In Vita mia, uno spettacolo che Emma definisce come il suo capolavoro, la scena si apre con un letto vuoto, per raccontare la morte di un ragazzo. “Ho perso un fratello di 24 anni in un incidente”, dice. Poi prosegue svelta, chiedendoci divertita se ci pare possibile credere alla convenzione teatrale dell’attore che fa il morto immobile sul letto. “Ho capito che era il movimento il modo per raccontare la Morte. Gli ho dato la bicicletta, all’attore, e gli ho detto: ‘Pedala!’”.
E così, Emma ci regala il racconto della genesi di una delle scene più belle mai viste a teatro: la scena struggente del ragazzino che pedala e pedala e pedala sulla sua bicicletta girando intorno al letto al suono del Sirtaki. “Dentro a questa festa, a questa bicicletta che pedala, dentro a questo movimento c’è la Morte”-spiega con generosità inaudita.
Emma e i fischi
Capitta guarda l’orologio. Sono le sette di sera. Il Tempo è tiranno. Prima di andare chiede al pubblico se ci sono domande. La signora anziana di prima si alza squillante e chiede colpita perché i loggionisti ce l’avrebbero tanto con Emma. Emma sfodera un sorriso incantato, ci riflette con calma e ridendo dice che forse è perché i loggionisti stanno troppo in alto, sono lontani, stano scomodi e sono in piedi tutto il tempo, e che forse, i loggionisti, non ci vedono bene. Ed è subito Meta-teatro.
Odeo del Teatro Olimpico di Vicenza, 20 Settembre 2014
67° Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico
Emma Dante incontra il pubblico. Con Gianfranco Capitta
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